Mario Bionda in una foto-ritratto di Uliano Lucas

 

Non ci fu pittore in Italia, fra i nati negli anni dieci, che alla fine degli anni quaranta o all’inizio dei Cinquanta non abbia dipinto almeno un quadro neocubista, come se si trattasse di una tappa obbligata da superare per dirigersi verso la modernità. Per Mario Bionda (1913-’85) si trattò di una breve parentesi, consumatasi al ritorno dal fronte e dalla lotta partigiana, respirando quel vento di rinnovamento che da Torino, dove era nato, a Milano, dove si era trasferito alla fine degli anni trenta, oscillava fra ipotesi «astratto-concrete» e «naturaliste»: come un rito di passaggio, gli era servito a emanciparsi dal mondo di forme solide e tornite dalla luce in cui era cresciuto frequentando, giovanissimo, la scuola di Felice Casorati.
Parte di qui la mostra Mario Bionda Immagini, erosioni, spazi (1950-1964), a cura di Elena Di Raddo, visitabile fino al 21 novembre presso la Casa Museo Boschi di Stefano per il ciclo Visti da vicino ideato da Maria Fratelli. Prende le mosse da due dipinti del 1962 acquistati dai coniugi collezionisti per approfondire una stagione del pittore. Erano il risultato, quelle tele giocate sui grigi e le terre misti a sabbia in cui increspature di bianco diventano abbagli improvvisi, dei principi esposti nel 1956 nel Manifesto antiestetico, di cui Bionda fu estensore e firmatario insieme a Ralph Rumney e Costantino Guenzi. «Noi siamo contro il gusto e contro l’antigusto», scrissero i tre, dichiarando la loro opposizione teorica a tutte le istanze poetiche correnti: non volevano avere nulla a che fare «con le ricerche matematiche», forse allusione alle ricerche concretiste, né credevano la pittura fosse utile strumento di consenso ideologico, o che valesse per la sua confezione formale: tutto, insomma, e il contrario di tutto; una difesa delle leggi immutabili della pittura e allo stesso tempo una sfiducia nei nuovi «manifesti» stilati dagli artisti loro coetanei, o più giovani di loro. «Un quadro», proseguivano, «è un oggetto in sé, non è un lusso di arredamento. Un quadro è ambientativo non è ambientato. Un quadro è generato da forze che coinvolgono, non è composto da forme che sconvolgono».
In questa negazione di tutto, in cui qualsiasi espressione artistica del passato poteva essere letta soltanto con l’occhio del presente, trovava spazio anche un cenno allo spazialismo, che pure fu tra le tappe che Bionda attraversò per un istante nella sua pittura.
La sua vera vocazione, però, era verso la materia, la stratificazione del colore con stesure dense e toni gessosi, le materie porose ottenute mescolando l’olio con gesso e caolino. Allo stesso tempo, però, Bionda fu letteralmente una spugna, capace di assorbire in maniera intelligente gli stimoli più sollecitanti fra le proposte che aveva attorno a sé, da lui tradotte nel proprio gergo informale: questo lo aveva portato a cambiare più volte nel corso di un decennio, ma con variazioni di ductus che restavano interne a una concezione unitaria del quadro come campo di sollecitazioni visive, su cui un dramma poteva consumarsi in un abbaglio improvviso di bianco fulmineo come un fendente.
Nella prima metà degli anni cinquanta il punto di riferimento principale fu il suo coetaneo Alfredo Chighine, con cui condividerà lo studio fino al 1957: da lui avrebbe mutuato l’idea di un quadro composto per accostamento di campiture dai confini sfrangiati, ottenute applicando materia e lisciandola sulla tela con la spatola, innervando poi la superficie con una griglia di segni neri, un po’ tracciati col colore e un po’ scavati nella pittura, rimeditando come un’eco lontana il groviglio di segni di Hans Hartung.
Era però la Francia il punto di riferimento, e non è un caso che fu un critico come Franco Russoli, imbevuto di cultura francese, a scrivere di lui in alcune occasioni cruciali dei Cinquanta, come la personale al Milione nel 1958 e la partecipazione alla Biennale dello stesso anno. Questo non impedirà a Bionda di restare un pittore tonale a base di grigio, più lombardo e nebbioso degli stessi lombardi: il segno ha un valore strutturante, crea una concentrazione di intensità al centro della tela come un nucleo pronto a deflagrare. Presto, infatti, la griglia si sfalderà, la materia si arricchirà in senso polimaterico, arrivando a delle hautes pâtes di forte aggetto su cui poi dipingere con velature liquide, infrangendo l’unità di segno e materia come aveva insegnato Jean Fautrier, i cui quadri si vedevano senza difficoltà, a Milano, già dal 1957, e ancor più dopo la consacrazione alla Biennale di Venezia del 1960.
Ma se dal maestro francese, come il suo amico Guenzi per altra via, aveva preso l’idea di lavorare intorno a un’applicazione di materia al centro del quadro, Bionda poi non lo seguirà nella definizione di quel grumo come un volto tumefatto: la guerra, pur così vicina nella memoria, non emerge con esiti tanto espliciti, ma è un senso di rabbia ribollente, senza compiacimenti, sotto la cenere.
Tutto, per Bionda, si gioca sulla superficie del supporto pittorico, tanto che la tecnica del frottage di memoria surrealista è una vera e propria rivelazione per arricchire di effetti ulteriori il trattamento della tela: la pelle rugosa della natura, o le asperità della vita urbana, affiorano sotto un segno di carbone ossessivo, che si sfarina sul foglio o va a infittirsi in un inestricabile intreccio. Il quadro è un muro, o una parete, su cui si apre una crepa, uno squarcio su un mondo deserto e magmatico.