La Commissione Agricoltura del Senato continua la lenta marcia di analisi e possibile revisione del Disegno di Legge su tutela, sviluppo e competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico. Un testo ereditato a dicembre dello scorso anno dalla Camera dove era stato rapidamente depositato a inizio legislatura e approvato con voto bipartisan a pochi mesi di distanza.

Nelle ultime settimane sono state promosse le audizioni di esperti e gruppi di interesse e in questa veste FIRAB e AIAB hanno portato il loro contributo, unitamente a quelle di altre organizzazioni del biologico. Giudizio positivo unanime delle realtà del settore, con qualche differenza di accento su alcuni punti, come l’opportunità di spingere verso una forma di aggregazione interprofessionale di cui una sola sarebbe riconosciuta a livello nazionale con il rischio di accordi sottoscritti dai pesi massimi a scapito della vivacità e autenticità del settore, oppure sui presupposti con cui dar vita al proliferare dei biodistretti di cui sarebbe fondamentale un baricentro agricolo. Sono sfumature non troppo divisive.

Quanto sembra più interessante e rilevante è piuttosto il riconoscimento da parte del Ddl della produzione biologica quale attività di interesse nazionale con funzione sociale e ambientale. Ne discende che il legislatore si appresta ad attestare un valore e una funzione della produzione di cibo e della tutela del territorio a un metodo agricolo che aspira a diventare modello di sviluppo a più ampio raggio. Aspetti che attirano preoccupazioni e offensive dai tutori della conservazione.
D’altronde, che ci si trovi di fronte a diverse prospettive di sviluppo del sistema agroalimentare, concorrenti nel rivendicare l’ambizione di sfamare il pianeta nel rispetto della sostenibilità, è stato anche ben messo in luce dal rapporto licenziato dal Panel di Esperti del Comitato Mondiale per la Sicurezza Alimentare, presentato di recente alla FAO. Questo evidenzia come ci siano due distinte vocazioni: una che punta a un sostanziale business as usual teso a perseguire avanzamenti «incrementali» di sostenibilità, l’altra che richiama un’esigenza «trasformativa» del processo di produzione e consumo che archivi la stagione di sistemi alimentari iniqui e impattanti su clima e ambiente per guardare al dispiegamento di approcci agroecologici tarati sulle specificità di ambienti e comunità. In questa seconda chiave, l’urgenza di invertire la rotta per fare i conti con la crescita del numero di affamati nel mondo, con la spoliazione e il degrado di risorse naturali e con il caos climatico diviene stella polare per l’adozione di politiche e di pratiche.

Può una legge nazionale sul biologico farsi interprete di una tale vocazione rinnovatrice? A guardar bene, quanto attualmente in discussione al Senato non dimostra questa spinta e forse neanche si pone tale ambizione. Eppure, il segnale che le istituzioni comprendano il valore guida del biologico nella spinta a una riforma dell’intero sistema di generazione degli alimenti e che pongano questa questione tra le priorità, darebbe il segno di una scelta di fondo, su cui provare poi ad allineare altre questioni: criteri di (non) uso dei pesticidi, tutela delle risorse naturali, decarbonizzazione, autosufficienza energetica, valorizzazione di biomasse di scarto per il ripristino della fertilità dei suoli con materiale organico di qualità, riduzione di uso e spreco idrico, creazione di sistemi di conoscenza a servizio di quanto sopra riformando il sistema della formazione e della ricerca, per dirne solo alcuni.

Una nuova legge sul biologico non sarebbe un definitivo trampolino di lancio per il settore, ma un prezioso segnale di attenzione e possibile inversione di rotta. Che dovrà comunque fare i conti con le priorità della politica e la durata della legislatura.