Cinque anni dopo Con i piedi nell’acqua, Cecco Bellosi ritorna a narrare i luoghi del lago di Como in Sotto l’ombra di un bel fior (Milieu, pp. 237, euro 14,90), questa volta fissando la sua raffinata e curatissima penna su quel pugno di giorni che segnarono la storia d’Italia, nella tarda primavera del ’45, con la cattura e fucilazione di Mussolini e dei gerarchi fascisti. Nella quale si intreccia la tragica morte di Luigi Canali e Giuseppina Tuissi, il capitano Neri e Gianna, partigiani comunisti torturati dai fascisti e uccisi dai loro compagni perché sospettati di tradimento.

A loro Bellosi aveva dedicato uno dei racconti del libro precedente; ora, mescolando con perizia narrazione romanzesca e accurato vaglio degli eventi e delle testimonianze, restituisce loro quella giustizia che mancò nei giorni convulsi del ’45, dimostrando come si possa parlare degli eventi più scabrosi della Resistenza senza cadere nelle falsificazioni alla Pansa, o nelle opinioni in libertà spacciate per verità.
Neri, leggendario comandante partigiano, e Gianna, staffetta e sua compagna, furono catturati dai fascisti nell’inverno del ’45; Neri riuscì a evadere, Gianna fu seviziata e violentata con crudele sadismo, facendo dei nomi sotto tortura. Su di loro fu emessa una sentenza, la cui esecuzione rimase sospesa per il prestigio di cui godeva fra i partigiani Neri: non a caso uno dei partigiani che giustiziarono Mussolini.

La loro vicenda è ripercorsa lungo tre momenti: il 1948, quando il calore degli aventi appena trascorsi si scontra con l’effetto dell’amnistia di Togliatti, che riporta fuori dalle galere – e nei ranghi delle forze dell’ordine, delle prefetture, degli uffici dello Stato, sugli scranni del Parlamento – i fascisti: un provvedimento di grazia e non di giustizia che, trasformandosi in amnesia, «si è incagliata nella bonaccia crudele dell’oblio». Il 1957, quando a Padova ebbe luogo il processo per il presunto furto dell’oro di Dongo che rappresentò il tentativo di processare la Resistenza nel suo complesso; e che vide riuniti nella «difesa convinta di una dignità comune», accanto al comunista Longo, Raffaele Cadorna ed Enrico Mattei: «Loro avevano compreso che separare i destini, gettando il fango sui comunisti, avrebbe sporcato una nobile storia. Tutta e non solo una parte».

Qui Bellosi ci dà una vera lezione di metodo storico, distinguendo la storia reale – «la cattura di Mussolini e dello stato maggiore del fascismo da parte di uno sparuto, smagrito e lacero gruppo di partigiani» – dalla chincaglieria costruita a partire da ciò che quel 25 aprile 1945 era secondario o irrilevante – la borsa del Duce, i documenti riservati, l’oro: «La gente e gli storici improvvisati sanno ricostruire la storia al contrario, invertendo l’ordine dei fattori. E il prodotto cambia».

Infine, nel 1967, quando le uova dei serpenti stanno per schiudersi e Paolo, socialista libertario, amico fraterno di Ignazio Silone, ricostruisce la prima strage di Stato, quella della Fiera di Milano del 1928, legata a quella di piazza Fontana come il passato remoto è legato al futuro anteriore, dove «il futuro anteriore è il modello del passato remoto»: a conferma dell’allucinazione visionaria di Borges (e Benjamin): «Sono i posteri a creare gli antenati».
Accanto a Paolo, Pedro, proveniente dall’aristocrazia toscana; Tom, partigiano coraggioso «che aveva scolpito nelle mani e nel volto il ferro che lavorava con forza e fatica ogni giorno»; Pietro, «un hombre vertical, nelle difficili scelte della sua esistenza»; e Bill, «vent’anni e fegato da vendere». Le loro voci, come attorno al tavolo di un’osteria o in un casolare di montagna, guidano il lettore nel dipanarsi della tragedia di Neri e Gianna. Ma anche, nel rivoltare il tappeto dell’immediato dopoguerra per scoprirne, nel risvolto, i primi nodi del fascismo che sarebbe ritornato. Perché quello dei voltagabbana (dei quali Mussolini è stato il principe) è «il logo più amato dagli italiani»; perché «il fascismo, in sonno ma mai estirpato, giace nel ventre molle della gente», in attesa dell’apprendista stregone di turno; e perché quello italiano è «un Paese senza dignità e senza memoria», incapace di rielaborare colpe ed errori.

Attorno a queste Bellosi individua dei tipi umani, degli stili di vita che richiamano alla memoria la rivolta di Camus e la guerra partigiana di Fenoglio. «Pedro e Bill non erano partigiani politici, ma esistenziali: passionali di temperamento e narcisi innocenti della breve stagione di maggio. I comunisti possedevano la saldezza dell’acciaio; loro invece vivevano la coriacea fragilità del cristallo. Difficile dire chi sia stato piu grande. Anche perché gli uni e gli altri sono stati dimenticati da un Paese senza memoria. Trasformati in peccati smarriti in confessionale».
Per tutti loro, e per noi che non dimentichiamo, scrive Cecco