I biocidi secondo la definizione fornita dalla Direttiva 98/8/CE, sono i principi attivi «destinati a distruggere, eliminare, rendere innocui o impedire l’azione o esercitare altro effetto di controllo su qualsiasi organismo nocivo».

A giudicare dal fuoco di fila che si sta ultimamente scatenando su biologico e biodinamico, sembra si cerchi di «distruggere, eliminare, rendere innocui o impedire l’azione» del bio tout court. Un’azione biocida applicata su un intero settore, il biologico, ritenuto nocivo – in ordine sparso – al clima, ai poveri, alla sicurezza alimentare, al suolo, alle api, financo alla scienza e all’intelligenza.

Tra biocidi noti o recenti gli esempi non mancano: le infuocate reprimende della senatrice a vita Elena Cattaneo contro elitarismo e cancerogenicità del bio, i tazebao virtuali appesi contro il convegno organizzato al Politecnico di Milano dall’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica (di cui temiamo la scure dell’Inquisizione scientista e il rogo per stregoneria) o la recente invettiva lanciata da firmatari accademici, tecnici e agricoltori contro il percorso legislativo destinato a normare il settore biologico.

Quest’ultima iniziativa è spinta da conventicole di tre università e da una «vecchia» compagnia di giro pro-biotech, che, miscelando qualche ben selezionata pubblicazione scientifica, articoli di giornali e invettive da osteria, pur senza rinunciare a una usurpazione di concetti quali agroecologia o sovranità alimentare, chiede il blocco dell’iter normativo che dovrebbe dare un quadro legislativo nazionale ancor più avanzato rispetto a quanto previsto dalla riforma comunitaria del Regolamento di settore. È da presumere che siano del tutto coscienti che la speranza biocida applicata alle Camere sia vana, ma la cagnara può tornare utile per godere di visibilità e ottenere compensazioni, già peraltro abbondanti considerando l’annacquamento delle misure agroambientali della PAC o delle predisposizioni del Piano Nazionale di Azione sui pesticidi o dei vincoli a utilizzare prodotti agrochimici dannosi, magari con il pretesto dell’eccezionale andamento climatico, magari anche su colture dove non sarebbero ammessi.

È d’altronde lo spirito del tempo: il bisogno del nemico per darsi identità, per attizzare schieramenti, per aggregare gli ignavi, per scaricare su terzi le proprie responsabilità.

Attenzione dunque a non cascare nella medesima tentazione: il biologico è uscito da anni dalla riserva indiana in cui era rinchiuso e deve andare oltre la mera difesa d’ufficio e l’azione politica monotematica o intrasettoriale. Deve piuttosto aprire un ragionamento su quali debbano essere obiettivi e opzioni per l’intero sistema alimentare e su quale ruolo di avanguardia il biologico può giocare in tal senso.

Deve ad esempio approfondire il nexus tra metodo di coltivazione e modello di sistema alimentare, legando remunerazione e qualità del lavoro, accessibilità dei prodotti, reti di prossimità, preservazione delle risorse naturali, erogazione di servizi ecosistemici alla collettività, compatibilità climatica, salubrità e ricchezza nutrizionale del cibo, bellezza e godimento.

Nel 2011 si stimava che gli stanziamenti mondiali a favore della ricerca agroalimentare assommassero a 69,3 miliardi di dollari, con la quota dedicata a ricerca e sviluppo per il biologico pari allo 0,5% dell’investimento totale. Senza rimarcare come una parte del gap produttivo del biologico si sarebbe potuto sanare destinandovi più risorse, strutture e capacità di ricerca, sarà ora opportuno porre rimedio a tale profonda asimmetria sostenendo in maniera più sistematica un disegno di innovazione lungimirante, non circoscritto a una strizzata d’occhio alle nicchie, ma vocato a un’ambizione strategica di sostenibilità multidimensionale del sistema alimentare.

Si può ad esempio partire da qui, con buona pace dei biocidi.

* Segretario generale Firab