Davanti al sentimento di indignato sconforto provato nel visitare una delle più acclamate esposizioni londinesi, ho deciso di reagire attaccando innanzitutto me stesso. Chi sono io, per giudicare una mostra? Fanatico di quel principio di competenza secondo cui chiunque dovrebbe limitarsi al proprio specifico campo, come oso intromettermi ora in questioni d’arte? La domanda consente un chiarimento su temi di scottante, direi anzi ulcerante attualità. Infatti vedremo come, in questo caso, non occorre essere uno specialista della materia, per gridare allo scandalo. Ma andiamo con ordine.
Sto parlando di Bill Viola Michelangelo: Life, Death, Rebirth, curata da Carmody Groarke alla Royal Academy of Arts e aperta fino al 31 marzo. L’allestimento presenta 12 video installazioni dell’artista statunitense, che ripercorrono la sua parabola creativa dal 1977 al 2013, in dialogo con 14 disegni di Michelangelo, a cui si aggiunge un prezioso bassorilievo, il Tondo Taddei, custodito proprio dalla Royal Academy. Dov’è il problema? Semplice: nell’idea stessa dell’accostamento.
Da tempo va diffondendosi la malaugurata pratica di accoppiare un artista contemporaneo, sia pure già affermato o affermatissimo, a un gigante del passato. In questo caso, la star è Michelangelo, convocato in maniera incomprensibile, o meglio, ahinoi, comprensibilissima. Dato che tutti i musei sono costretti a inseguire fatturati e visibilità, tale trovata, o meglio, tale format, attira sponsor e fa aumentare il numero di visitatori. Lo scopo strettamente commerciale di queste operazioni finisce per mettere d’accordo tutti, sotto il magico segno del fund raising (ossia «raccattare», o piuttosto «accattare» denaro). Siamo di fronte alla stessa la logica che qualche tempo fa portò alla realizzazione di un film sull’ipotetico incontro di boxe tra i campioni dei pesi massimi Rocky Marciano e Muhammad Ali, nati rispettivamente nel 1923 e nel 1942. Anche se i due non erano separati da cinque secoli bensì da una ventina d’anni, tutto era finto, tranne ovviamente i proventi. Fu così che nel 1966, anticipando gli effetti speciali, un’azienda informatica di Miami organizzò il Super Fight, evento mediatico trasmesso in oltre 1500 sale cinematografiche di tutto il mondo, con un bottino superiore ai cinque milioni di dollari.
E qui arriviamo al cuore del dilemma: dobbiamo o no immaginare una distanza tra spettacoli sportivi e iniziative culturali? Dobbiamo o no pretendere che uno sfida di fanta-boxe sia altra cosa rispetto a un’esposizione d’arte? Dobbiamo o no pensare che corra qualche differenza tra il ring usato per una messinscena e le solenni sale della Royal Academy? Ma non è tutto. Se avvicinare due artisti lontani mezzo millennio può sembrare di per sé una sciocchezza, farlo in base ai criteri indicati diventa addirittura imbarazzante.
Sul sito dell’istituzione britannica leggo che «Michelangelo e Viola indagano gli stessi soggetti universali con lavori di trascendente bellezza e crudo potere emotivo». La mostra esplora pertanto le affinità tra i due «come un coinvolgente viaggio attraverso il ciclo della vita». Veniamo così a sapere che l’arte di Michelangelo ha esercitato una profonda influenza su Viola, il quale, dopo aver vissuto a Firenze in gioventù, in età matura ebbe modo di vedere alcuni disegni del genio toscano nella collezione reale del Castello di Windsor. A questo punto, la reazione del pubblico sarà naturalmente un grande «Wow!» di sorpresa. La presentazione segnala infine l’immenso «potere spirituale ed emotivo del lavoro Michelangiolesco».
Marzullo, dove sei? Rovelli esistenziali, metafore della nostra condizione mortale, la carne e l’anima, il tormento e l’estasi … Banalità inaccettabili anche in un’interrogazione liceale. Del resto, in un articolo su «Domus», Simona Bordone ha parlato della didattica elementare di questa «mostra di lusso», perfetta operazione di marketing. Eppure c’è qualcosa di ancora più grave: Viola non ha bisogno di Michelangelo, né noi di questa mostra, che danneggia la stessa autorevolezza della Royal Academy. Forse sarebbe bene ricordare che esistono responsabilità istituzionali talvolta più preziose degli incassi.