Se una volta Bill Viola (Viola e non «Vaiola» come si usa dire, dal momento che i suoi nonni erano originari della Lombardia) era conosciuto soprattutto dagli addetti ai lavori e dagli appassionati della ricerca elettronica, dagli anni ’90 è stato cooptato e consacrato nel sistema dell’arte contemporanea, entrando così nel circuito internazionale dei musei, nelle collezioni. L’imponente mostra allestita al Grand Palais di Parigi fino alla scorso luglio, lo ha definitivamente consacrato anche in Europa. E del resto all’Europa e all’Italia questo artista deve molto: ancora giovane, nel 1974, venne a Firenze per lavorare come operatore per l’atelier della Bicocchi Art/Tapes/22. E sicuramente il contatto con l’arte rinascimentale fiorentina sarà preziosa per la sua formazione pensando alle videoinstallazioni che dagli anni ’90 a oggi Viola ha realizzato: rielaborazioni, attraverso l’immagine in movimento, di composizioni sacre anche famose da Giotto al Manierismo. Dagli anni ’70 ai ’90 alterna videotape monocanale a installazioni pluricanale e realizza anche alcuni lungometraggi video che conservano intatti il loro fascino visivo e la loro poesia. Citiamo solo i lavori più importanti: Chott El-Djerid (A Portrait in Light and Heat) del 1979, che mescola miraggi ottici prodotti presso un lago salato disseccato nel Sahara con riprese invernali delle fredde praterie del Saskatchewan; Hatsu Yume (First Dream) del 1981, contemplazione della cultura e della natura giapponese, tra vita e morte, realtà e simbolo; The Passing (1991), che prosegue – interamente in bianco e nero e in maniera esplicitamente autobiografica – il medesimo discorso su nascita e morte, infanzia e memoria; I Do Not Know It Is Am Like (1986) – forse il lavoro più complesso e ambizioso di Viola – rappresentazione dei legami tra mondo umano e animale, realtà fisica e dimensione metafisica. In tutti i video di Viola l’immagine riacquista la sua capacità arcaica di evocazione magica, lasciando emergere la duplice e ambigua natura di idea e realtà, concetto e rappresentazione, mediazione tra il mondo sovrasensibile e quello empirico. La visione è davvero un’esperienza percettiva e conoscitiva, da fare nello spazio (ancor più nel caso delle installazioni) e nella durata (soprattutto quando si tratta di videotape). «Rilevante è la nozione» – ha detto l’artista – «che le immagini abbiano poteri di trasformazione all’interno dell’individuo stesso, che l’arte possa instaurare un processo di guarigione, di crescita o di organicità, in breve, che essa sia un ramo della conoscenza, un’epistemologia nel senso più profondo, e non una mera pratica estetica». Lo sguardo di Viola è tutt’uno con il suo respirare: come in The Passing, pervaso da una soggettività totale, in uno stato di trance, di dormiveglia, in cui è possibile evocare i propri fantasmi più reconditi. Il suo sguardo si cristallizza in una durata che tuttavia non si stabilizza mai. Durata-realtà e durata-illusione, come il tuffatore-fantasma di The Reflecting Pool, congelato e rapito dal tempo nell’istante in cui spicca il volo, mentre l’acqua continua a scorrere. Dal 1995 in poi, anno di Deserts ispirato alla composizione musicale di Edgar Varèse – Viola si è quasi esclusivamente alle installazioni, realizzando alcune opere memorabili su plasma o proiezione su grande schermo. Del 1995 sono le installazioni concepite appositamente per il padiglione statunitense della Biennale veneziana, tra cui Greeting e Veiling. La prima si rifà alla Visitazione del Pontormo, aggiornando questa scena di conversazione nell’era digitale e trasformando la composizione pittorica in un tableau vivant rallentato però di migliaia di volte. Ed è proprio la riflessione sul contrasto mobile/immobile, articolato mediante l’equiparazione tra la riproduzione cinetica e la rappresentazione di matrice pittorica, tra il punctum temporis di cui parla Gombrich che attiene tanto alla posa fotografica quanto al quadro, ad essere al centro di molte installazioni di Viola degli ultimi anni. Il tempo di queste immagini è, appunto, esasperatamente rallentato (senza però impoverire la definizione della superficie elettronica). In modo impeccabile l’artista lavora sull’organizzazione spaziale della scena, sul bilanciamento cromatico, sull’uso del chiaroscuro, ecc. Il risultato è quello di un quadro elettronico. L’osservatore deve però cogliere i movimenti impercettibili degli attori (il battito di ciglia, il movimento di un volto), per avere la certezza di non trovarsi di fronte ad una fotografia ma ad un video, non davanti alla riproduzione fissa di un tableau vivant, ma davanti alla dilatazione teoricamente infinita di un’azione reale. Solo il movimento brusco di un personaggio rompe all’improvviso l’incantesimo dell’opera, sospesa tra due diverse dimensioni temporali. In The Veliling, invece, due corpi videoproiettati dai lati opposti (quelli di un uomo e di una donna) fendono nove velari: l’immagine così si sfuma. L’idea è quella di un sudario, un altro elemento simbolico centrale di tanta iconografia pittorica, in cui si dissolve l’incontro tra le due figure. L’artista ha compreso perfettamente che il video – proprio per la sua natura di dispositivo smaterializzato – può rappresentare ancor più di una composizione pittorica il sacro e il trascendente. Gli elementi naturali (il fuoco, ma soprattutto l’acqua) costituiscono una delle ossessioni ricorrenti nell’estetica di Viola. Pensiamo a The Crossing (1996): due schermi dorso a dorso sospesi in uno spazio buio, ripropongono la stessa figura umana, da un lato avvolta dalle fiamme e dall’altro investita da un getto d’acqua. Le due forze naturali non sono solo distruttive, ma simboleggiano la purificazione, la catarsi e, quindi, la rinascita. Un tema questo che ritorna costantemente in altre opere di Viola, dove al centro c’è l’acqua, perfetta metafora del passaggio dalla vita alla morte: Departing Angel (2001), Emergence (2002) – che riprende iconograficamente il soggetto quattrocentesco della «deposizione» – o l’installazione Ocean Without a Shore, allestita nella chiesa di S. Gallo durante la Biennale del 2007. Si tratta di vere e proprio esperienze visive estreme ed emozionanti, inquietanti e commoventi, alle quali l’artista ci invita ad assistere.
Vorrei iniziare con una domanda che qualcuno giudicherà anacronistica o banale, ma che ritengo importante per fare un po’ di chiarezza. Lei si sente un artista o invece ritiene di essere un «videoartista», nel senso che ha scelto di esprimersi quasi esclusivamente con un solo medium espressivo?
Mi considero innanzitutto un artista. Qualunque sia il medium scelto da chi fa arte, dal sangue di animale ai moderni computer, il materiale è secondario rispetto alla qualità dell’idea, all’ispirazione, alla visione che ne è alla base. Il materiale è il corpo del lavoro, un contenitore temporaneo come lo sono i nostri stessi corpi, ma la visione o l’idea è l’anima. È intangibile ed eterna, e lo sarà anche al di fuori della nostra esistenza. La tecnologia è certamente importante e io ho dedicato gran parte della vita a perfezionare il mio lavoro dal punto di vista tecnico, ma non mi trovo a mio agio etichettato come «videoartista». Quanto più la tecnologia si evolve, tanto più i termini «video» e anche «cinema» cominciano ad essere sempre più imprecisi. In questo momento la gente non realizza solo film con le videocamere ma anche con i propri cellulari. Guardano film e programmi televisivi su telefoni palmari e laptop, si imbattono nelle immagini in movimento su internet, sotto forma di pop-up o di clip su YouTube. Le persone vanno nelle sale a vedere «film» proiettati su supporti video digitali, mentre tra il pubblico, i ragazzini – simultaneamente – mandano e ricevono sms. Fuori, nelle strade, grandi schermi trasmettono immagini in movimento sulle pareti degli edifici, come gli affreschi del Rinascimento. Diventa difficile distinguere dove termina l’arte e ha inizio la vita reale.
I suoi lavori non hanno quasi mai bisogno della mediazione verbale e non sono di natura concettuale. Non si basano su dialoghi ma solo su immagini e suoni. Anche per questa ragione arrivano immediatamente allo spettatore.
Il linguaggio non-verbale ha sempre rappresentato la dimensione più profonda della comunicazione umana. Questo è il motivo per cui l’amore e il desiderio possono creare un legame più forte di qualsiasi contratto legale. All’inizio del XX° secolo il maestro sufi e musicista Hazrat Inayat Khan ha detto: «Ciò che è pronunciato dalle labbra non va oltre le orecchie…ma ciò che è detto dal cuore raggiunge il cuore». Quando venni a Firenze per lavorare nell’atelier video Art/Tapes/22 (uno dei primi in Europa) non ero in grado di parlare in italiano e mi sono sentito molto isolato, così ho sviluppato un’acuta capacità di comunicazione con alcune persone, anche se non potevo esprimermi a parole. Appena ho frequentato i primi festival internazionali di videoarte, mi sono reso conto di come le opere che usano il linguaggio sono limitate e hanno difficoltà ad essere comprese dal pubblico. Questa osservazione, congiunta al mio personale giuramento di non inseguire l’orizzonte di un cinema che tratta i film come letteratura, come un racconto per immagini, mi ha spinto ad evitare il tradizionale meccanismo del plot, dialogo, musica, struttura narrativa drammatica. Sono andato alla ricerca di nuove forme partendo dall’infrastruttura corporea della percezione sensoriale, della memoria emozionale e dei segreti movimenti della coscienza umana.
Si parla spesso, a proposito delle sue installazioni, di «pathos», «spiritualità», «emozione». Lei crede di essere abbastanza in controtendenza rispetto a un’arte – quella attuale – che si rivolge più all’intelletto che ai sensi, rispetto invece alle sue opere che, oltre alla mente, parlano al cuore, alle viscere del fruitore.
Non penso molto alle tendenze dell’arte mondiale di oggi. In ogni caso sono davvero interessato a toccare tutte le persone con il mio lavoro, specialmente l’inconscio sommerso nella dimensione del Sé. Noto che l’intelletto, quando tagliamo via i centri emozionali e intuitivi del nostro essere, genera molta sofferenza, ignoranza e violenza nel mondo. Il sutra Vimalakirti, uno dei testi centrali del buddismo tibetano scritto duemila anni fa, ci dice che «La realtà è percepita da tutto il corpo». Così, mantenere il corpo e la mente bilanciati, sia in arte che in politica, è qualcosa di estremamente importante.
E infatti il corpo è sempre stato al centro della sua opera, messo in relazione con lo spazio, con il paesaggio, con gli elementi naturali ma anche con l’essenza stessa delle immagini. Penso che i suoi lavori possono essere considerati, a loro modo, performativi…
Si, in qualche modo è così. E questo è particolarmente vero quando ci troviamo su un set durante una produzione impegnativa, dove una serie di eventi complessi e coordinati, devono essere organizzati con precisione per «svelare» una specifica sequenza. Dirigere un team di performer e tecnici è, più o meno, come dirigere un’orchestra musicale. L’immagine in movimento esiste da qualche parte tra l’urgenza temporale della musica e la concretezza materica della pittura, e io penso che il video o il film non debbano essere completamente assimilati né all’una né all’altra. Essa – vale a dire l’immagine in movimento – è associabile ad entrambe, ed è proprio questo che la rende così interessante e così contemporanea. 2.500 anni fa Buddha ci insegnò che tutta la vita è cambiamento. Nelle parole di un filosofo presocratico, Eraclito, «tutto scorre». Le cellule nei nostri corpi si rigenerano approssimativamente ogni sette anni, quindi non siamo fisicamente gli stessi che eravamo qualche anno prima. La nostra condizione dell’essere è in costante flusso chimico, biologico, fisiologico, quindi non siamo neppure le stesse persone che eravamo quando abbiamo cominciato a leggere questa frase.
L’arte può assolvere, come nei secoli scorsi, alla funzione di rappresentare il sacro?
Si, perché questa speciale modalità di percezione è fortemente inscritta nel sistema operativo umano. Il grande studioso di religioni del secolo scorso, Mircea Eliade, ha detto che «Il sacro è un elemento nella struttura della coscienza e non un palcoscenico nella storia della coscienza». Esso non può essere messo da parte in quanto primitivo sistema di credenza delle origini. Nonostante ciò, sembra molto difficile riconoscerlo nell’era tecnologica odierna. Ma penso che l’arte contemporanea possa avere in sé un’idea di sacralità forse anche maggiore, poiché ha la possibilità di aggiungere il movimento all’immagine. […]Sono convinto che le tecnologie digitali svolgeranno un ruolo importante nell’evoluzione umana e nella potenziale fusione tra l’hardware tecnologico e il software del corpo.
Da cosa nasce l’esigenza di prendere a modello la pittura del passato, da Giotto al Manierismo. Dal desiderio di rileggere la storia dell’arte e soprattutto alcuni temi iconografici secondo un’ottica nuova e moderna, oppure perché pensa che siano comunque punti di riferimento imprescindibili per un artista?
Dopo essermi diplomato alla scuola d’arte nel 1973, mi sono totalmente allontanato dalla storia delll’arte. Finalmente, dieci anni dopo, fermandomi a Madrid mentre andavo al festival di S. Sebastian, ho deciso di visitare il Prado per qualche ora. Ero esausto dopo il lungo viaggio dalla California ed emotivamente vulnerabile. Mentre visitavo le varie sale del museo – Van der Weyden, Bosch, Velasquez, Zurbaran e, dulcis in fundo, i disegni cupi di Goya – per la prima volta dentro un museo ho cominciato a piangere. Ero completamente distrutto e avevo la sensazione che le pareti mi crollassero intorno. In quel momento la distanza che mi aveva separato dai vecchi maestri del passato si è completamente dissolta. Tempo e spazio, passato e presente, erano la stessa cosa. Così il mio profondo legame con la pittura italiana – nato nel periodo in cui vivevo a Firenze – è ritornato a galla come un amore perduto. Ho capito che i cosiddetti vecchi maestri non erano altro che giovani radicali. Masaccio, Michelangelo, Raffaello, erano artisti influenzati da nuove idee tecniche e scientifiche, provenienti da centri di ricerca e da università. Avevano tutti circa 20 anni quando hanno creato i primi grandi lavori. Il parallelo con l’epoca attuale delle videocamere digitali, della computer graphic, della videoarte e di internet, è indiscutibile. Una volta stabilita questa relazione, e cioè che tutta l’arte a quel tempo era avanguardia, si colgono solo connessioni e affinità, non fratture. Dopo tutto, c’è un unico filo che attraversa la scienza ottica, dalla prospettiva di Brunelleschi del XV° secolo fino all’era digitale. Così un intero nuovo paesaggio, che aspettava di essere esplorato, mi si è aperto davanti. Naturalmente non ero interessato ad appropriarmi o a parodiare, non volevo semplicemente riprodurre o citare la storia dell’arte. Ho guardato all’essenza della pittura di Giotto e dei suoi colleghi del tardo Medioevo e del Rinascimento, come modelli per la mia concezione dell’immagine, costruendola grazie a un’esperienza lunga 700 anni.
Uno degli elementi che sembra interessarle maggiormente è il rapporto tra tempo e movimento. Pensiamo a installazioni come «The Greeting» o «The Quintet of Astonished». Le sue immagini video vengono rallentate fino a congelarsi (la pittura) per poi «sbloccarsi» e riacquistare un movimento anche minimo, che le fa ritornare «cinema».
Rallentare l’immagine in movimento non è il frutto di una semplice strategia estetica, ma è un atto che espande la nostra consapevolezza mentale. La dimensione nascosta di eventi sconosciuti e di configurazioni in divenire, cose che normalmente sono al di sotto della soglia di consapevolezza, ci vengono rivelate grazie allo slow-motion. Con varie pratiche di meditazione si ottengono gli stessi risultati ma in modo naturale, senza l’ausilio della tecnologia. Sentire in modo più profondo e vedere più in là all’interno del reale, è stata un’aspirazione umana coltivata a lungo. Oggi possediamo gli strumenti per realizzarla. La mia arte non è realmente cinema, non è pittura. Non è realismo, sebbene si avverta spesso come qualcosa di realista, e non è una creazione, poiché tutte le immagini derivano dalla vita reale. Penso si tratti piuttosto di un’espansione dei livelli di realtà.
Quanto è importante la tecnica e la scelta di uno specifico dispositivo tecnologico rispetto al tema del lavoro? Immagino che le capiti di concepire prima un’opera e poi pensare al modo migliore per realizzarla; ma le è mai successo il contrario: cioè ideare un dispositivo e poi di cercare il giusto contenuto da inserirvi?
]Lei ha toccato un punto davvero nodale, l’origine dell’ispirazione artistica. L’opera nasce dall’interno o dall’esterno di sé? Ho sperimentato entrambi i casi. All’inizio della mia carriera negli anni ’70, ero profondamente legato alla tecnologia in rapida evoluzione. Le innovazioni erano una costante fonte di ispirazione e frustrazione. Ricordo di aver atteso a volte anni per realizzare un’idea visiva che avevo in testa, poiché la tecnologia non me lo consentiva. Four Songs del 1976 era uno di questi lavori. Avevo bisogno di un controllo accurato del montaggio dei frames e della registrazione in slow motion su disco che fosse perfetta prima di poter realizzare il lavoro così come lo avevo immaginato. Viceversa è successo che per un’altra installazione del 1983, Room for St. John of the Cross, c’era la tecnologia di proiezione su grande schermo e il suono spaziale ma ho dovuto aspettare l’ispirazione, che è arrivata sotto forma di una piccola raccolta di poemi di San Juan de la Cruz, il mistico spagnolo imprigionato dalla Santa Inquisizione nel 1577. La visione di una piccola cella in un ambiente scuro con una luce e una voce che emergevano, mi si è configurata in modo completo attraverso un singolo flash interiore, e mi è stato possibile costruire il lavoro attraverso piccoli dettagli partendo da queste invisibili indicazioni.
In conclusione sono i due lati dello stesso specchio. Uno scaturisce da stimoli interni, da un amalgama di pensieri e sensazioni derivanti da esperienze, memorie o improvvise illuminazioni della coscienza; l’altro da stimoli che invece provengono dall’esterno: la nascita di un nuovo dispositivo, l’incontro con un libro, o ritrovarsi in mezzo a un insolito temporale. In definitiva vi sono due forze che convergono sempre sul piano del Sé, e che sono nate nel mondo per essere trasmutate in forme che possono essere percepite dagli altri: una parte energetica interna, una parte materiale esterna. Questo processo avviene in me sin da quando ero molto giovane e non posso spiegarlo. Lo accetto e lo rispetto quando arriva, perché si tratta pur sempre di un dono.
Questa conversazione è una sintesi di una lunga intervista già apparsa su Alias l’11 ottobre 2008