Il mondo di oggi sembra avere paura del sublime, e del nuovo. Uno sguardo, sia pure fuggitivo, alle programmazioni di teatri e istituzioni concertistiche d’Italia, di Europa e del mondo, sembra confermare la tendenza, sempre più diffusa, a proporre un repertorio consolidato, privo di sorprese. La musica antica, ma anche barocca, e contemporanea, sono evitate un po’ dovunque: il nuovo anno potrebbe rivelarsi, così, come la conferma di tale tendenza, anche in paesi che apparivano finora più aperti e spericolati, più curiosi in ogni caso del nuovo. Fanno in parte eccezione i paesi di lingua tedesca. Vienna propone di Monteverdi Il ritorno di Ulisse in patria e Stoccarda l’Orfeo. La Staatsoper di Berlino mette in scena un’opera da camera di Oscar Strasnoy, compositore argentino che da anni vive a Berlino. Stoccarda mette in scena a febbraio un Singspiel del compositore trentenne Sebastian Schwab, Der Räuber Hotzenplotz, e Dresda Psychose di Philip Venables tratta da Psychosis di Sarah Kane, il libretto inglese tradotto in tedesco dal poeta Durs Grünbein. Per l’avanguardia storica, a Stoccarda si rappresenta il Saint François d’Assise di Messiaen. Per il resto tanto in Italia quanto altrove il repertorio non osa spingersi oltre Šostakovic e i rassicuranti Poulenc o Adams. Un ritorno all’ordine in sintonia con il clima culturale dell’epoca. Fa eccezione Monteverdi, amatissimo un po’ dovunque, più che in Italia. Luigi Ronga, dall’Università di Roma, negli anni Sessanta lamentava come in Italia le grandi assenti dai concerti e dai teatri fossero la musica antica e la musica contemporanea. Sembra che dopo sessant’anni anni la situazione non sia cambiata.

Il Teatro dell’Opera di Roma ha aperto la stagione con i Dialogues des Carmélites di Poulenc, opera del 1957, quest’anno rappresentata in molti altri teatri europei. Opera bellissima, ma non di avanguardia. Ci si chiede perciò se la stagione che vide tra gli anni Quaranta e Ottanta del secolo scorso i compositori avventurarsi in sperimentazioni che avevano talora un carattere utopico e che nascevano dalla catastrofe della seconda guerra mondiale, non solo sia definitivamente conclusa (e questo è naturale, proseguirla sarebbe, infatti, esercizio di sterile accademia) ma addirittura accantonata, come se il rancore degli sconfitti di allora – le avanguardie furono ferocemente persecutorie di qualunque impostazione che si scostasse dalle posizioni più rigorose della cosiddetta Nuova Musica – attuasse ora una sua vendetta e attivasse una damnatio memoriae. Sarebbe un errore speculare sull’intolleranza ideologica delle avanguardie. Intolleranti furono piuttosto gli epigoni, perché appunto epigonali e dunque a corto di idee. Ne soffrirono anche grandissimi compositori, come Henze, la cui colpa era la sua libertà. Ma una simile vendetta implicherebbe una perdita di memoria storica. Il confronto, oggi, con la musica delle avanguardie storiche ci permette di capire meglio il mondo da cui veniamo, nel quale siamo, e il mondo verso il quale andiamo. Lo sguardo retrospettivo ci restituisce una varietà incredibile di mondi musicali. Se la differenza tra un Britten e uno Stockhausen salta, infatti, immediatamente all’orecchio, non minore è la distanza tra gli stessi compositori d’avanguardia: Nono, Berio, Boulez sono molto diversi e sono lo specchio ineliminabile di un’epoca, come nel primo Novecento lo furono Schönberg e Stravinskij. Impariamo dall’ascolto della loro musica ad apprezzare una libertà di soluzioni compositive che oggi sembrano perdute. La musica radicale del Novecento ci tramanda questa libertà: perché averne paura? È un invito alla molteplicità, a diffidare del già noto, del comprensibile. Le musiche del Novecento, così diverse tra loro, avanguardia e no, non erano in contrapposizione – come si credeva – ma complementari: facce di uno stesso rapporto complesso con la realtà. Che oggi, forse, non riscontriamo più.