Biennale Arte 2022: “Brick House”, 2019, dell’americana Simone Leigh, Leone d’Oro

Una Biennale atipica, causa pandemia, per lo spostamento – seconda volta nella sua storia – del periodico incontro. Una Biennale ancor più atipica per l’illusoria, festosa uscita dal virus, in piena minaccia di una guerra basata su imprevedibili strategie internazionali. Cruda dimensione simboleggiata, tra i viali dei Giardini, dai padiglioni della Federazione Russa e degli Stati Uniti perpendicolari l’uno all’altro e separati da poche decine di metri. L’attrito è evidente, netto. L’uno, asserragliato in segno di dissenso per la decisione di curatore e artisti, in questa fase così drammatica della Storia, di non partecipare; l’altro – ben mimetizzato da un ingegnoso sistema di elementi lignei gravati da canne e paglie – tramutato, da fredda sembianza stile «neoclassico coloniale», in chimerico, gigantesco capanno, ideale espressione di una primitiva civiltà perduta. Due immagini chiare, contrapposte in un drammatico confronto di realtà che non lascia indifferenti di fronte a quella che tutt’intorno appare invece come una edulcorata visione generale improntata a un titolo – Il latte dei sogni, da un libriccino di Leonora Carrington – che ancor più addolcisce e tempera il tema dell’edizione 2022.
Prima riflessione. Lo stordimento di fronte allo scontro tra una dimensione politica vera rappresentata da quei due padiglioni, dimensione vissuta virtualmente alla distanza di uno schermo che, pur non risparmiando la crudezza degli accadimenti, crea un diaframma tra sguardo ed emozione, e, al contrario, quella fortemente ideologica e sognante della mostra. Uno scontro basato su un insieme linguistico diverso? Non vi è dubbio. Ma dove lo iato?
Da una parte il tema dell’identità di genere rivendicato in modo paradigmatico e dottrinale con una percentuale di nomi femminili tanto elevata – e quasi per la metà appartenenti a un passato avanguardistico – da proporsi come vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti di un dominante pensiero al maschile. Dall’altra un conflitto dalle devastanti conseguenze espresso in rigidi segni svuotati di fonemi. La fantasia potrebbe allora essere lo splendido rifugio contro lo smarrimento presente se parlasse il lessico dell’attualità. Ma i parametri sono mutati rispetto al secolo trascorso, i paradigmi hanno ormai altri canali di espressione. E noi, in fondo, abbiamo cessato di abitare il reale.
Quella fantasia prefigurata dalle parole della Carrington – «la vita si reinventa attraverso il prisma dell’immaginazione e a noi è concessa la metamorfosi e il divenire altro da sé» – può ancora avere valore oggi, in un’epoca dominata da una diversa costruzione dell’identità che passa attraverso una messa in scena veicolata dai social e dai canali di informazione, insidiosi luoghi di ambiguità e di controllo? L’aver voluto ricondurre al Surrealismo e alle parole della Carrington l’ispirazione per una tesi contemporanea lascia quindi perplessi. Quale affinità tra l’evasione post-bellica proiettata in un mondo le cui speranze erano fondate sulla rimozione degli spettri di un conflitto di recenti efferatezze e il mondo di oggi, imperniato non più sulla narrazione ma sulla additività di informazioni? Intorno a quell’universo femminile Lea Vergine, oltre quarant’anni fa, in una emblematica mostra, aveva fatto emergere un tessuto di importanti rapporti con «l’altra metà» al maschile, facendo affiorare i nomi che ora costituiscono motivo di meraviglia e riscoperta. Ma ne Il latte dei sogni sono esibite per la maggior parte opere che raramente, se non per le immagini fotografiche, si elevano al di sopra dell’oleografia o della precisa, accurata soluzione illustrativa sulla scia, spesso, dei più celebri compagni. Nonostante nelle recenti esposizioni internazionali si siano viste creazioni di più alta originalità, come ad esempio le tardive sculture distorte, snaturate, dai rimandi carnali di Dorothea Tanning, ormai emancipata dall’influenza di Max Ernst, sorprendenti rivali delle inquietanti ricuciture della ben più famosa Louise Bourgeois. Non certo di quelle deboli parvenze disseminate nella mostra a colmare spazi e vuoti intorno a temi prevedibili ben organizzati in un allestimento semplice e di terso rigore formale.
Altra riflessione. Il monumentalismo. Dietro a quel gigantismo pleonastico di sicuro effetto e di forte impatto visivo si avverte il vuoto di un pensiero che risponde a temi di correttezza politica ormai di gran moda, la cui iconografia ricalca immagini stereotipe tramandate da una bassa propaganda sulla superiorità del maschio e della razza bianca. Un gigantismo che, nell’accuratezza e precisione, condensa il tema dissolvendo nella sola apparenza esteriore la forza di un messaggio. Molto gigantismo, non solo scultoreo, che troppo spesso si limita a superficiale piacevolezza, a valente conoscenza tecnica, a un vistoso atto di «rappresentazione». Laddove quella sapienza rischia di rimanere impigliata in una logica di alto artigianato. Il tutto in parallelo con la vacuità del fashion system sempre più tempestivo nell’ideare intorno all’evento uno spettacolo pirotecnico di sorprendente esteticità. Una logica, quella della «rappresentazione», che ormai sembra definire anche il mercato dell’arte e delle aste le cui quotazioni balzano all’inverosimile in rapporto a nomi, assonanze cromatiche e desiderio di possesso come emblematica messa in mostra di autorità e di supremazia. Il tutto pilotato, anche qui a Venezia, da un sapiente gioco di gallerie che, come su un grande scacchiere, con precise mosse algebriche, dislocano operazioni belliche nei luoghi più affascinanti e remoti della città lagunare.
E fuori dai Giardini, per ironico contrasto, si sacralizza il gigantismo maschio, nelle imponenti e prestigiose sedi di Palazzo Ducale e dell’Accademia, nelle scenografiche, teatrali installazioni di Kiefer e Kapoor, dove cascami stillanti reminiscenze straboccano materia nell’evocare cupi e grandiosi momenti del passato, o dove ricche sostanze alludono a umori e liquidi organici in eruditi richiami alla grande pittura. In questa sfrenatezza si intuisce una – forse inconscia? – azione difensiva contro un mondo che ha innalzato la digitalizzazione a simulacro, ha archiviato la materialità delle cose insieme alla dimensione dell’altro. Due maestri aggrappati quindi alla realtà e all’arte versus un universo di donne e di non binari, politicizzato e dogmatico.
Ultima riflessione. In questa girandola al femminile, la cui apparente riappropriazione di significato e di potere crea clamore e sorpresa, l’aspetto informativo e di comunicazione ha preso il sopravvento sulla vera identità e sul segreto della creazione artistica. La prospettiva ideologica offusca e pregiudica un messaggio che spinto all’eccesso appare come una prova di forza, annullando così un giusto desiderio di parità ormai sempre più rivolto a esaltare il tema delle minoranze come illusorio atto riparatorio.
E quella «circolazione segreta» che Baudrillard invocava per l’arte, quella «seduzione sotto il discorso, invisibile, di segno in segno» si è dispersa nel chiasso di una sognata, nivea rivendicazione che ha smarrito il mistero e la voce dell’arte.