Martedì sera Stephen Bigan, il vice di Mike Pompeo, è atterrato a Mosca per un incontro con Sergey Lavrov, il ministro degli Esteri russo. Si è riparlato dell’annosa questione, da tempo in alto mare, degli accordi sulla non proliferazione degli armamenti nucleari ma soprattutto, come ha riconosciuto lo stesso capo della diplomazia russa, di Bielorussia.

«DURANTE I COLLOQUI, il sottosegretario di Stato Bigan ha condannato l’uso della violenza contro il popolo bielorusso e ha espresso sostegno alla sovranità della Bielorussia e del suo diritto all’autodeterminazione» ha twittato Rebecca Ross, dell’ambasciata americana a Mosca. In realtà, dietro la ritualità della nota, gli Usa intendono promuovere la Russia a mediatrice nella crisi di Minsk come già avvenuto con il Donbass. Una posizione scomoda ma inevitabile per Mosca che da prima delle elezioni bielorusse lavora per giungere al superamento del regime di Lukashenko ma senza perdere la Bielorussia come partner strategico e militare. Un cammino tortuoso che in questa fase forzatamente si attesta sulla posizione espressa da Lukashenko: nuovo voto sì ma non su “pressione della piazza”.

SU QUESTA LINEA LAVROV in conferenza stampa ha affermato di aver richiamato l’attenzione degli americani «sull’iniziativa del presidente Lukashenko, presentata già prima delle elezioni e ripetuta già nel periodo post-elettorale di voler attuare una riforma costituzionale per il consolidamento della società e per la successiva riorganizzazione presidenziale, parlamentare e dei governi locali». Un approccio che evita di affrontare il cuore del problema: la trattativa diretta tra il governo in carica e il “comitato di coordinamento” dell’opposizione.

SVETLANA TIKHANOVSKAYA, in autoesilio in Lituania, ha aperto anch’essa a Mosca riaffermando l’importanza dei legami culturali ed economici tra i due paesi slavi, ma finché non dirà delle parole scolpite nella pietra sulla posizione internazionale della Bielorussia è chiaro che non troverà orecchie attente sulla Moscova.

Dopo domenica le manifestazioni si sono ridotte e il ministro degli Interni bielorusso punta a usare il guanto di velluto nella repressione: sono in corso molti arresti amministrativi, qualche decina di lavoratori sono stati denunciati e licenziati ma per ora i reparti antisommossa restano nelle caserme. A questo punto il paese più che implodere potrebbe lentamente ripiegarsi su se stesso.

NELLA RIUNIONE DEL GOVERNO dell’altro ieri Lukashenko ha affermato di non essere in grado di pagare la rata del debito estero di agosto e ha denunciato che «i disordini sono già costati al paese 500 milioni di dollari». Il rublo ucraino già deprezzatosi di oltre il 25% dall’inizio di gennaio rischia di collassare. Non a causa di manovre speculative esterne come segnalano gli specialisti – essendo la piazza finanziaria di Minsk troppo ristretta per operazioni simili – ma a fronte della corsa della popolazione a cambiare i propri risparmi in valute forti come il dollaro e l’euro.

SULLO SFONDO PESA anche la concomitante vicenda del presunto avvelenamento di Alexey Navalny. Dopo che Merkel aveva chiesto a Putin – senza ricevere risposta – di aprire un’inchiesta su quanto avvenuto i russi vanno al contrattacco. «La domanda sorge inevitabile, chi avrebbe beneficiato di tale avvelenamento? Il governo russo chiaramente no» si legge nel comunicato diffuso dal ministero degli Esteri. La diplomazia russa vuol far intendere che si tratterebbe sì di un caso internazionale, ma contro la Federazione.