Il 2 novembre ci sarà un test, piccolo ma significativo, per misurare la forza attuale di Trump e della sua capacità di leadership e di traino del Partito repubblicano. E sarà un assaggio.
Un assaggio di quel che potrebbe succedere tra un anno, nel voto di medio termine. Nel primo martedì del prossimo mese è infatti prevista un’elezione suppletiva, per il Congresso di Washington, nel quindicesimo distretto dell’Ohio, zona in parte rurale e in parte urbana e proletaria.

Il distretto lambisce Columbus e comprende Athens, sede dell’università dell’Ohio, isola blu (democrat) nel rosso profondo di quella parte dello stato, vinto da Trump nel 2016 con un vantaggio di 8,07 punti e di nuovo nel 2020 con 8,02. In corsa, favorito, un pupillo dell’ex presidente, Mike Carey, trumpista doc, a iniziare dal suo mestiere – lobbista dell’industria carbonifera -, che già grazie al suo sostegno era riuscito a vincere le primarie repubblicane contro il candidato dei poteri locali. Troppo probabile la sua vittoria perché il voto sia assunto come test? È probabile, certo, ma non scontata, anzi l’esito potrebbe riservare una sorpresa piacevole per il Partito democratico, con la vittoria della sua candidata Allison Russo. La perfomance di Carey sarà dunque osservata come un sintomo interessante dello stato di salute dei trumpismo, mentre è ancora viva e aperta, come fosse ieri, la ferita dell’irruzione a Capitol Hill e Trump è al centro delle cronache politiche con il lancio della sua piattaforma social Truth.

L’interesse per un voto normalmente periferico rispetto ai grandi giochi della capitale, è dato dal fatto che si tiene in un clima di grande incertezza – politica, economica, sociale – un’incertezza ulteriormente alimentata da un confronto che, nel novembre 2022, si giocherà su una manciata di seggi, determinati per definire i rapporti di forza nella fase finale della presidenza Biden e nella prefigurazione del dopo-Biden. Oggi i dem controllano i due rami del Congresso, ma con un vantaggio molto esiguo e vulnerabile. Inoltre, se i membri dei gruppi repubblicani in grande maggioranza sono schierati con Trump, ma solo in parte sono stati eletti sulla sua scia e/o per sua cooptazione, i nuovi parlamentari saranno tutti tipo Mike Carey, anche peggio, con numerosi esponenti del suprematismo bianco e della setta Qanon.
Il rischio è che tra un anno il Congresso potrebbe avere una maggioranza rossa, per di più dominata e controllata da Trump e dai suoi accoliti. Entreranno nel Congresso per scardinarlo dall’interno, senza bisogno di nuovi tentativi di colpi come quello del 6 gennaio 2020. Ormai i repubblicani «hanno abbandonato la dinamica parlamentare», «sono insurrezionalisti con politiche estremamente reazionarie» e contano «di restare in piedi, minando il processo democratico», ha detto Noam Chomsky in una recente intervista a Marilisa Palumbo del Corriere della Sera.

All’interno del suo perimetro politico e ideologico, la figura di Trump non è stata logorata dalla perdita del potere, primo ex-presidente peraltro ancora politicamente attivo e deciso a ritentare la scalata alla Casa Bianca. Questo perché l’operazione tesa a trasformare la sconfitta del 2020 in una grande truffa elettorale ordita dai democratici ha avuto pieno successo nel suo elettorato, stando ai dati di un recente sondaggio Cnn, secondo il quale il 78 per cento dei repubblicani considera illegittima la vittoria di Joe Biden. Nel frattempo nessun esponente repubblicano, neppure della vecchia guardia come Mitt Romney, appare deciso a contendergli la leadership.
Non essere riusciti ancora, con la via giudiziaria, a mettere fuori gioco Trump o a ridimensionarne il ruolo come leader del Grand Old Party ha l’inquietante riflesso di far apparire la figura di Joe Biden ancor più in difficoltà di quanto sarebbe legittimo aspettarsi in una situazione così complicata come quella che vivono attualmente gli Stati Uniti, ancora alle prese con una pandemia che non dà tregua. Il presidente democratico ha un gradimento troppo basso – 42 per cento – per poter guidare con il necessario vigore il partito verso l’appuntamento delle prossime elezioni di mid-term, né Kamala Harris sembra poter supplire in quel ruolo, avendo anche lei un’immagine tutt’altro che brillante.

In più Biden sembra perdere terreno nel suo campo, per via di un eccesso di cautela nel portare avanti la sua ambiziosa agenda di riforme economiche, che con il tempo, con una logorante negoziazione parlamentare, si sta inevitabilmente annacquando, con comprensibile crescente irritazione sia della sinistra interna sia delle constituency che formano la base elettorale del Partito democratico. Si ripete il solito scenario nel quale un centrista, come lo è Biden, pur eletto con i voti decisivi della sinistra, messo sotto pressione da avversari agguerriti e da eventi difficili, preferisce tirare la corda con la sinistra, dandone per scontato l’appoggio di fronte al pericolo della destra incombente, nel tentativo di tenere la rotta con l’occhio rivolto ai moderati del campo avverso, che, come detto, ormai non esistono neppure più. Un calcolo che potrebbe rivelarsi suicida.