È toccato al ministro degli esteri saudita Faisal bin Farhan al Saud, dal palcoscenico del World Economic Forum di Davos, reagire in qualche modo allo schiaffo ricevuto da Washington che congelerà temporaneamente le vendite di armi già programmate all’Arabia Saudita e degli aerei F-35 agli Emirati. Un passo che ha spinto l’Italia a fare altrettanto e che mette sotto pressione altri paesi che forniscono armi alle monarchie del Golfo. L’Arabia saudita confida che l’America di Joe Biden «voglia spostare l’attenzione dall’ambito militare a quello della sicurezza e della cooperazione, nello sforzo di garantire al mondo pace e prosperità», ha proclamato il ministro saudita. In parole povere, se non ci vendete (per ora) le armi almeno mostrate i muscoli all’Iran, il nostro nemico. «Biden ha inviato un segnale chiaro» dice l’analista giordano-palestinese Mouin Rabbani «l’alleanza tra Usa e petromonarchie non è a rischio ma la politica di Donald Trump nel Golfo si è fermata il 20 gennaio e, fa sapere il nuovo presidente, Washington seguirà con più attenzione l’uso che gli alleati (arabi) faranno delle armi di fabbricazione statunitense in Yemen e in altre aree».

La mossa americana colpisce più duramente gli Emirati che lo scorso agosto avevano condizionato la firma dell’Accordo di Abramo – la normalizzazione dei rapporti con Israele mediata da Trump, accettata anche da altri tre paesi arabi – alla possibilità di acquistare gli F-35 americani. Israele l’unico Stato della regione che già schiera questo tipo di velivoli, era fortemente contrario ma il premier Netanyahu ha dato il via libera alla vendita pur di firmare l’intesa con Abu Dhabi. Biden ha fatto anche un favore a Tel Aviv che si ritrova in tasca l’accordo con gli Emirati senza che i nuovi alleati arabi entrino in possesso degli aerei.

Dopo il congelamento della vendita delle armi, non aver ancora firmato l’Accordo di Abramo è un vantaggio per la monarchia Saud che potrà usare la normalizzazione con Israele come una merce di scambio nelle relazioni con l’Amministrazione Usa. A Riyadh però devono ingoiare, come gli israeliani, il rospo della nomina a inviato speciale per l’Iran di Robert Malley, uno degli architetti ai tempi di Barack Obama del Jcpoa, l’accordo sul programma iraniano di produzione di energia nucleare abbandonato nel 2018 da Trump. La scelta di Malley, un arabista che vanta buone relazioni in Medio oriente e convinto sostenitore che la sicurezza degli Usa passi per la diplomazia e non per l’uso della forza, è stata accolta con disappunto in Israele, dal potente erede al trono saudita Mohammed Bin Salman e da altri monarchi del Golfo. Certo il segretario di Stato Tony Blinken ha avvertito che gli Usa rientreranno nel Jcpoa solo dopo che lo avrà fatto Tehran. Ma a Riyadh come a Tel Aviv comprendono che la nomina di Malley conferma l’intenzione di Biden di ricucire, sebbene in parte su nuove basi, le relazioni con l’Iran.

Questo quadro mutato ridimensiona lo sforzo di Riyadh di schierare davanti all’Amministrazione Biden un Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) compatto, grazie alla riconciliazione, dopo tre anni di aspro confronto, tra l’Arabia saudita e il Qatar avvenuta il 5 gennaio con il vertice di al-Ula. La crisi del Golfo peraltro non è finita. Doha non rinuncia ai buoni rapporti che mantiene con l’Iran e resta lo sponsor principale dei Fratelli musulmani considerati «terroristi» da sauditi, emiratini e bahraniti. Resta la rivalità tra Emirati e Qatar in Libia dove Abu Dhabi appoggia il generale Khalifa Haftar mentre Doha aiuta il governo di accordo nazionale di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite. Spaccature ideologiche e priorità geostrategiche dei vari attori sulla scena del Golfo restano prevalenti anche in Africa. Riyadh e i suoi alleati sono determinati a contrastare l’influenza qatariota in Tunisia dove Doha investe su larga scala nell’economia locale. Lo stesso vale per la Somalia dove il blocco saudita-emiratino appoggia lo Stato autoproclamato del Somaliland mentre il Qatar si allinea con il governo del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed. Il fronte arabo compatto anti-Iran inseguito da Riyadh resta lontano.