La strada di Benyamin Netanyahu è sempre più in salita dopo la sconfitta subita nelle elezioni di martedì. Il capo dello stato Rivlin domenica avvierà il giro di consultazioni per assegnare l’incarico per la formazione di un nuovo governo e le indiscrezioni dicono che anche Avigdor Lieberman, il leader del partito nazionalista laico Yisrael Beitenu, ago della bilancia del quadro politico israeliano con i suoi otto seggi, con ogni probabilità farà il nome dell’ex generale Benny Gantz, capo della lista vincitrice Blu e Bianco. Se ciò fosse vero Gantz, che già ha l’appoggio dei partiti del centrosinistra – il suo (33 seggi), i laburisti (6), Unione democratica (5) – con Yisrael Beitenu avrebbe disponibili 52 seggi. A questi potrebbe aggiungere, se avrà il coraggio politico di mettere fine all’isolamento dei partiti “non-sionisti” osservato rigidamente in Israele, potrebbe ottenere, a certe condizioni, il sostegno esterno dei 13 seggi della Lista araba unita, arrivando a 65 seggi. Netanyahu senza Lieberman è fermo a 55 seggi. E non è detto che qualcuno dei suoi alleati nazionalisti e religiosi non sia tentato dal passare dall’altra parte.

Mercoledì Netanyahu ha convocato un summit con il Likud, il suo partito, e le altre formazioni della destra. Scopo: consolidare le fondamenta dell’alleanza. Alla fine ha proclamato con enfasi che la destra è tutta dietro di lui (tranne Yisrael Beitenu). Invece la leader della lista Yamina, Ayelet Shaked, ha smentito l’esistenza di un patto vero e proprio con il Likud e fa capire che vuole tenersi le mani libere. Gantz non ha mai parlato di uno Stato palestinese indipendente e questo va bene a Shaked fautrice del pieno controllo di Israele sui Territori occupati. Ci sono poi i partiti religiosi ortodossi, Shas e Giudaismo unito nella Torah, che in passato non hanno avuto scrupoli a cambiare casacca. E potrebbero farlo anche ora se Gantz limiterà l’avversione di Lieberman per i religiosi. Netanyahu però non è uno sprovveduto. Sa che il leader di Blu e Bianco preferisce un governo di unità nazionale con il Likud ad un esecutivo sostenuto sia pure dall’esterno dai partiti arabi. Per motivi ideologici e per non diventare il bersaglio quotidiano delle accuse di «tradimento» della destra. Nonostante il fatto che, come spiegano gli specialisti, l’ex generale debba il suo successo anche al buon risultato della Lista araba e alla maggiore affluenza alle urne degli arabo israeliani.

Così ieri Netanyahu ha lanciato l’esca. «Benny, dobbiamo creare un governo di unità più ampio possibile. Il popolo attende che entrambi ci prendiamo la responsabilità e agiamo cooperando» ha detto in un video messaggio rivolto a Gantz. E ha proposto una rotazione alla guida del governo, come, ha detto, fecero negli anni Ottanta il leader della destra Yitzhak Shamir e quello laburista Shimon Peres. Tentativo rispedito al mittente. Gantz si è apertamente candidato ad essere primo ministro. Si è detto interessato a un governo di unità ampia e liberale ma poi ha lasciato al suo compagno di partito Moshe Yaalon, il compito di rifiutare la partnership con Netanyahu, citando le accuse di corruzione contro il primo ministro che attende le decisioni del procuratore generale Mandelblit. Netanyahu se perde la guida del governo rischia di essere processato, poiché è improbabile l’archiviazione di tutte le inchieste in cui è coinvolto. Il leader di Blu e Bianco insiste: Netanyahu deve farsi da parte. «Gli israeliani volevano un governo di unità già dopo le passate elezioni – ha spiegato – e lo vogliono anche oggi: ascolteremo tutti con attenzione, i negoziati saranno guidati da me…non ci sono né ci saranno scorciatoie». Una doccia fredda per il premier che ha denunciato una mancanza di senso di responsabilità da parte di Gantz.

Intanto anche gli «stretti» alleati americani colgono l’occasione dell’esito delle elezioni israeliane per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Parlando all’Università di Harvard, l’ex segretario di stato Rex Tillerson ha descritto Netanyahu come «un po’ machiavellico» al punto da usare la «disinformazione» per convincere la Casa Bianca su questioni importanti. «L’ha fatto con il presidente Trump in un paio di occasioni», ha rivelato.