Nei Discorsi sopra l’arte poetica Torquato Tasso intimava al poeta epico di lasciare le cose bibliche «agli uomini pii nella loro pura e semplice verità, perché in esse il fingere non è lecito». E nel suo Paradise Lost sull’omonimo poema di John Milton, il poeta Andrew Marvell esprime la medesima preoccupazione che quella poesia ispirata alla Bibbia possa rovinare le verità sacre degradandole a favole e vecchie canzoni («ruin… / The sacred truths to fable and old song »). Il sospetto di incompatibilità fra Bibbia e letteratura è antico almeno quanto Agostino e non ha mai cessato di permeare la poetica europea, fino all’anatema «classicista» di Curtius sulla poesia biblica latina come genre faux. Eppure la tradizione di letteratura scritturale, dalla Sepmaine di Du Bartas al Mondo creato dello stesso Tasso al grandioso Paradise Lost di Milton, da Blake a Klopstock, da Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann a Éve di Péguy, è certamente uno dei pilastri della letteratura occidentale, un fiume più o meno carsico che ne attraversa tutta la durata. Ma proprio i riduzionismi incrociati dell’apologetica cattolica e dell’umanesimo antireligioso hanno contribuito a oscurarlo fino a disconoscerne la continuità e la stessa legittimità come fenomeno letterario.
Negli ultimi decenni qualcosa è cambiato. A partire dagli anni settanta, mentre Roland Barthes sviluppava analisi strutturaliste di passi biblici e Paul Ricoeur elaborava le sue teorie ermeneutiche sull’affinità fra linguaggio poetico e linguaggio religioso, anche in Italia si registrava una crescita di interesse, sulle orme di Curtius, per il problema del rapporto tra poesia e teologia, in particolare nel periodo preumanistico, come occasione per il riconoscimento della sacralità della poesia tout court. Gradualmente il panorama culturale si è trasformato, offrendo allo studio della Bibbia come struttura letteraria e come elemento della tradizione culturale uno spazio prima impensabile. Mentre il campo teologico è stato ripercorso da impulsi autorevoli di esplorazione dell’estetica biblica (si pensi a von Balthasar e, in Italia, a Bruno Forte e Gianfranco Ravasi), negli anni ottanta l’enorme successo de Il grande codice, in cui Northrop Frye individuava le matrici bibliche delle strutture narrative nella letteratura occidentale, e l’attenzione dei decostruzionisti alla categoria di «riscrittura» hanno avuto effetti immediati nella rivalutazione del rapporto Bibbia-letteratura: da una parte le analisi monumentali di Robert Alter e Frank Kermode hanno riattivato ovunque (in Italia, ad esempio, con Remo Ceserani e, in forma di comparazione diacronica, con Piero Boitani) lo studio della Bibbia come macchina e matrice letteraria; dall’altra saggi come Words and “the Word”. Language, poetics and biblical interpretation di Stephen Prickett (1986) e il volume collettaneo Reading the Text. Biblical Criticism and Literary Theory da lui curato nel ’91 hanno documentato l’importanza dell’impulso che la scienza biblica ha dato alla teoria letteraria e alla pratica poetica, oggetto l’anno dopo anche di Literary Theory and Biblical Hermeneutics, una innovativa quanto sottovalutata raccolta anglo-ungherese di studi curata da Tibor Fabiny. Fra i riferimenti più produttivi che vi emergevano, spiccava la potente affinità fra l’idea di una Scrittura che espande se stessa teleologicamente attraverso la struttura narrativa progressiva (almeno nell’interpretazione cristiana che collega fra loro i due Testamenti) e la necessità, illustrata da Jacques Derrida in La Scrittura e la differenza, di interpretare la tradizione culturale occidentale come una costante riscrittura di segni che non trovano mai referenti appropriati, in uno «stato di senso perennemente incompiuto che esiste nell’assenza di ogni significato»: quello che già i medievali chiamavano supplementum sensus.
In tale itinerario si rivelava determinante il recupero della poetica romantica, oggetto di rinnovate attenzioni nella scuola decostruzionista di Yale, da Paul de Man agli ultimi lavori di Geoffrey Hartman. Non a caso una delle riflessioni italiane più significative sulla questione, Poesia e interpretazione della Bibbia di Sergio Givone (1988), parte proprio dalle protoromantiche Biblische Betrachtungen in cui Georg Hamann (1758) instaurava l’analogia fra interpretare la Bibbia come prolungamento dell’atto poetico che l’ha prodotta e la scrittura di poesia come riconoscimento della presenza nel linguaggio profano della parola divina sub contraria specie. A questo presupposto romantico in chiave nichilista, che in un articolo magistrale Walter Siti definì sulle orme di Harold Bloom «la gnosi americana», si ricollegò il provocatorio ma ormai canonico Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia a oggi, dello stesso Bloom.
A cavallo del cambio di millennio hanno proliferato le esplorazioni diacroniche (dal megaconvegno di Firenze ’97 La Scrittura infinita. Bibbia e poesia dal medioevo all’età contemporanea al workshop di Praha 2008 Retelling the Bible al colloquio di Parigi 2016 Mise(s) en œuvre(s) des Écritures), hanno cominciato a formarsi reti di studio internazionali e a comparire enciclopedie e dizionari che tentano di catalogare questo rapporto: in Francia, dopo il libro di Olivier Millet Bible et littérature del 2003, è uscita nel 2016 un’opera enciclopedica intitolata La Bible dans les littératures du monde, mentre l’Italia copre ora l’esigenza, dopo svariati saggi parziali e numeri speciali di riviste, con l’imponente Dizionario biblico della letteratura italiana diretto da monsignor Marco Ballarini (prefetto della Biblioteca Ambrosiana) e curato da Pierantonio Frare, Giuseppe Frasso e Giuseppe Langella, in collaborazione con Susanna Brambilla (Istituto di Propaganda Libraria, pp. 1054, euro 90,00), realizzato da oltre 150 estensori di 270 voci su singoli autori oppure, includendo molti più nomi, su fenomeni collettivi. Fra questi ultimi uno dei lemmi più sorprendenti è Vangeli apocrifi moderni, a cura di Silvia Cavalli, che si occupa sia di narrazioni come la Storia di Cristo di Papini e Lo sguardo di Gesù di Bacchelli o In nome della madre di Erri De Luca, sia delle forme in versi come la Rappresentazione della Croce di Raboni e di tante altre opere, delle quali pur in poche colonne si riescono a delineare con chiarezza tipologie e modelli e ad offrire qualche sondaggio di scavo, come avviene sul Quinto evangelio di Pomilio, o confronti intertestuali, come sul personaggio di Giuda in opere diverse. Altrettanto inattese anche voci socio-letterarie più succinte, come Ritorno al privato nel terzo Novecento, che rintraccia echi e riprese e stilemi scritturali, magari non dominanti né sistematici, non solo in Natalia Ginzburg o Giorgio Bassani, ma anche in Anna Banti, Carlo Cassola e Lalla Romano. O Memorialistica post-risorgimentale, che tocca D’Azeglio e Abba.
La brevissima introduzione dei curatori si dichiara consapevole dell’inevitabile tasso di arbitrarietà delle scelte in un campo così vasto e pervasivo e della conseguente difficoltà di classificare un fenomeno come biblismo oppure come dantismo o petrarchismo, oltre che di operare distinzioni fra l’uso della Bibbia in autori credenti o non, un discrimine delicato che rischia sempre di indebolire l’approccio filologico. Ma la qualità delle voci spesso supera i limiti di queste impasse. Con limpida cognizione di causa, ad esempio, Maria Teresa Girardi non tace sulle contraddizioni del Tasso (Torquato) che, come abbiamo visto, nei Discorsi argomentava l’incompatibilità fra contenuto biblico e rielaborazione letteraria, ma poi scrive Il mondo creato, qui definito il primo poema esameronico in volgare, mentre completamente diverso è l’approccio necessario a individuare i meccanismi dell’inserimento di tasselli scritturali nella Liberata o a decriptarvi l’uso della Bibbia come riferimento allusivo non bisognoso di narrazione o a ricostruire la sua presenza come ripresa di moduli petrarcheschi (la similitudine salmica col cervo assetato «alla fontana»).
Costante e, diremmo, prevalente è l’attenzione al Novecento, dove l’influenza della Bibbia è meno facilmente repertoriabile e dunque più preziosa l’opera degli estensori: non solo in casi di flagrante coinvolgimento e immedesimazione come Pasolini, ma anche – ad esempio – in Sereni, nei cui Strumenti Francesca D’Alessandro intravede un modello paolino di riconoscibilità non così immediata. Poco prima di Manzoni Alessandro troviamo anche la voce Magrelli Valerio, curata da Piero Montorfani, secondo cui «Svuotato dei suoi significati teologici, il grande codice della Bibbia rimane attivo per M. soltanto in quanto cultura, bagaglio di immagini spesso filtrate dalle arti figurative (…) alle quali accostare di volta in volta, senza alcun pudore reverenziale, esperienze collettive e personali», individuando anzi un meccanismo automatico di «abbassamento stilistico» ogni volta (e accade soprattutto nelle ultime opere, più permeate dal vissuto personale e familiare), che un’immagine biblica emerge nel tessuto dei versi.
Il passaggio del Grande Codice da linguaggio comune pan-occidentale a esperienza minoritaria e patrimonio quasi esclusivamente culturale sta modificando profondamente la misura e la modalità in cui archetipi e segni iconici, espressioni e proverbi delle Scritture bibliche adatteranno la loro trasparenza nelle scritture letterarie. Tanto più si renderanno necessari strumenti che consentano di restituirne le tracce.