C’è una frase di Jorge Luis Borges, contenuta nel saggio Sopra il «Vathek» di William Beckford in Altre inquisizioni (1952), che ben esemplifica la paradossalità insita in un testo: «L’originale è infedele alla traduzione». Può sembrare soltanto un paralogismo sterile, ma – come spesso accade – dietro all’adynaton si annida una verità a tratti sconcertante: le versioni di un’opera non arrivano a modificarne l’impianto fino a rendere dinamico il suo significato? In altre parole: la traduzione è forse, e non può essere diversamente, un lavoro di ri-creazione che tocca, strina e fiammeggia le corde essenziali di uno scritto? È la tesi sostenuta da Stefano Arduini in Traduzioni in cerca di un originale La Bibbia e i suoi traduttori (Jaca Book «Saggi di letteratura», pp. 176, € 22,00): «Questo libro – sottolinea il linguista nella premessa – racconta come proprio la Bibbia, il grande codice della cultura occidentale, sia vissuta per migliaia di anni attraverso i suoi traduttori e traduttrici, come abbia avuto molteplici redazioni e diversi autori, diversi canoni, diversi originali. Il libro di un Dio che ha voluto imparare le lingue degli uomini per poter comunicare con loro, per accoglierne la molteplicità che li caratterizza. Come se il suo messaggio più profondo fosse che la verità non è immobile ma diventa vera solo nel momento in cui tocca la realtà di coloro che rendono questo libro concreto».

Si parte con un interrogativo dal sapore ontologico: cos’è la Bibbia? Sotto il profilo materiale, dovremmo considerarla come una raccolta di rotoli singoli. Perduta la «tessitura» (textus), con il progetto unitario inderogabilmente a ramengo, si smarrisce nell’orlo dei secoli anche l’inafferrabile compilatore (Mosè, secondo la tradizione, che avrebbe dovuto però narrare la sua morte in virtù di un’invidiabile contezza divinatoria): «Quello che è chiamato nella tradizione cristiana Antico Testamento è dunque una biblioteca costituitasi nel corso di mille anni ad opera di vari autori, con diverse tipologie testuali e in lingue diverse». La scomparsa del primo compositore non è un gran danno (Roland Barthes docet), se non fosse per la consentanea perdita di un senso univoco. L’epoca del regno di Davide o di Salomone, i Masoreti (a mille anni dalla fonte JE, l’ipotesi documentale del Pentateuco), la grotta dei segreti di Qumran e poi il Talmud come «opera aperta»: sulla scorta di Lévinas, ogni residuo storico, ogni assillo esegetico ci indica un’«interpretazione infinita», stabilita come tale da Dio perché si superi il «pensiero concettuale» e ci si apra alla «trascendenza», all’indefinibile «santità» di Dio stesso.

È qui che Arduini conferisce un valore, per così dire, esistenziale al processo traduttorio: guardare con gli occhi dell’altro, rinascere lacanianamente «in un bagno di linguaggio», in una terra d’incontro al di là degli antagonismi. La seconda parte di Traduzioni in cerca di un originale è infatti dedicata alla Septuaginta, ossia alla cosiddetta versione greca della Bibbia da parte dei settanta (in realtà, settantadue sapienti di Alessandria d’Egitto, nominati dal sacerdote Eleazaro sotto il sovrano Tolomeo II Filadelfo nel III secolo a.C.). Essa racchiude i ventiquattro libri canonici ebraico-aramaici e un florilegio di scritture deuterocanoniche. Non si trattò soltanto di una larga operazione letteraria: fu un’adunanza di culture sotto il segno dell’hermenèia, parola in sé misteriosa e ambigua, che vuole «spiegare rendendo chiaro ciò che è oscuro» instaurando «un rapporto attivo, non di mera copia, con il testo d’origine». Gli antefatti della restituzione dei settanta li troviamo nella problematica Lettera di Aristea del II secolo a.C.: Demetrio Falereo, archivista di corte, suggerisce al re di includere la Legge ebraica nella sontuosa biblioteca di Alessandria. Occorrono, tuttavia, i materiali e la forza lavoro. Tolomeo impone di inviare una missiva al sommo sacerdote chiedendo validi metafrasti: si inserisce allora Aristea che propone, «come gesto di buona volontà», di «liberare tutti gli Ebrei che suo padre aveva portato in Egitto». A Eleazaro si comunica così l’affrancamento degli schiavi, l’elargizione di doni e denari in cambio di sei eruditi da ognuna delle dodici tribù che sappiano «tradurre» (ermenèusai) la Torah. Giunti ad Alessandria, data prova della loro sagacia, condotti sull’isola di Faro, i traduttori si mettono alacremente alla scrivania vista mare e terminano il compito, com’è scontato che sia, in settantadue giorni.

A questo punto è lecito domandarsi quale sia stata la prassi operativa dell’équipe. La tradizione, diventata di dominio comune, secondo cui «i settantadue traduttori lavorano separatamente e poi, per miracolo, le settantadue versioni risultano identiche», è bella ma un filo pretenziosa. Facendo ampie ricognizioni sulla Lettera di Aristea, Arduini evidenzia come «il metodo dei settantadue sia molto simile a quello che viene messo in atto nel rapporto fra traduttore e revisore. La traduzione è un processo che contiene diverse esperienze che non possono essere ignorate a favore solo del traduttore solitario (…), è un’esperienza polifonica in cui entrano molte voci compresa anche quella del lettore ideale».

La storia della Septuaginta sarà ripresentata da autori di lingua greca, i quali fonderanno l’auctoritas del testo direttamente su una sorta di decreto divino, moltiplicandone il prestigio e la fortuna: Aristobulo si concentrerà sul simbolismo numerico pitagorico; Filone d’Alessandria farà leva sull’ineffabilità di Dio sciogliendo il paradosso del rimodulare la sua «voce»; Giuseppe Flavio attribuirà un’«enorme importanza» all’impresa, pur nella considerazione di una «ritoccabilità» di alcuni passi; Epifanio ne riassumerà i contorni fondamentali. È chiaro che non soltanto la Bibbia in ebraico, ma persino quella in greco è un sistema, un «insieme», un corpo di elementi, ibridazioni, connessioni «tutt’altro che lineare». Ad esempio, le revisioni di Aquila, Teodozione e Simmaco (foregnizing, orientate cioè a cogliere gli aspetti peculiari del substrato giudaico) sono indizio di uno sviluppo compiutamente osmotico e, al contempo, sbilanciato sull’oltre, sul non conoscibile à coup.

L’ultimo capitolo si muove attorno a due interpreti d’eccezione: Girolamo e Agostino, entrambi «in missione per conto di Dio» ma lungo strade diverse, l’uno traduttore di razza (la sua versione «è rimasta sostanzialmente la stessa per più di 1500 anni»), l’altro acuto semiologo. Girolamo, ricorrendo alle lingue originali e trasferendosi sul posto (a Betlemme), diede vita alla Vulgata che segue il principio ciceroniano di riprodurre il senso con lo sguardo fisso sull’ordine letterale. Agostino è di avviso opposto.

Osserva Arduini: «La Bibbia è un libro che vive fra le traduzioni ed è la traduzione della Settanta a cui Agostino dà la preferenza aggiungendo che se fossero trovate le differenze tra la Settanta e il testo ebraico, questo non testimonierebbe necessariamente a favore del testo d’origine. Le differenze non sono errori di traduzione ma lo scarto che ha preparato la via al nuovo ideale cristiano fornendo una traduzione adatta ai non Ebrei. La Settanta può differire allora dal testo ebraico proprio perché è il testo che ha accompagnato la nuova Rivelazione». Con una chiusa ad anello, eccoci tornati al rilievo borgesiano, in un «rovesciamento di priorità quasi decostruzionista»: Agostino dichiara che una traduzione può essere più vera dell’originale. Sì, i settanta vanno più fondo nella Torah di coloro che l’hanno scritta.