Sullo schermo appare un sipario rosso: sul suo sfondo si proiettano le silhouettes di due spettatori, di spalle. Sono in attesa che il sipario si apra. Poi sul bianco, sopra alla precedente, si materializza una seconda immagine. All’inizio, sullo schermo, si disegnano solo delle linee verticali, rosse. Il colore è lo stesso rosso dell’immagine-matrice, ma le linee sono come evidenziate da una pulsazione interna. Poi, a partire da quelle linee di forza, appare il resto dell’immagine-eco: una donna è seduta, i piedi nudi poggiati su dei gradini metallici; il suo corpo è incorniciato, quasi imprigionato, dalle linee verticali rosse, pure di metallo, che – capiamo ora – sono le sbarre della ringhiera di sicurezza ai lati della scala. La donna ha il volto seminascosto dalla mano destra che lo sorregge, nella posa canonica della Melancholia. Ma la riconosciamo: perché anche il vestito che indossa è dello stesso rosso del sipario, ed è percorso dalle medesime pieghe. Mentre nel giro di pochi secondi va in scena questo piccolo ma acutissimo dramma della percezione e del riconoscimento, ascoltiamo una voce maschile – anch’essa come proiettata sullo sfondo del paesaggio sonoro, sottile quanto straniante, di Stefano Perna – leggere a voce bassa, come esausta: «l’interprete che il ruolo strema / oppure il pubblico che fissa il suo sipario / per tutta la durata della farsa / che nemmeno si recita sul palco». La donna è l’autrice delle due fotografie, Monica Biancardi; la voce è quella di Gabriele Frasca.

Il titolo di quest’ammaliante «drammaturgia per immagini» è RiMembra e il video è in proiezione alla Biblioteca Museo Nitsch, a Napoli, nell’ambito della mostra omonima di Biancardi (fino al 21 maggio). Ed è lo stesso titolo del bellissimo libro (Damiani, pp. 72, euro 25,00) nel quale queste fotografie – giustapposte a gruppi di due, qualche volta di tre, dall’attentissimo progetto grafico di Leonardo Sonnoli – si presentano accompagnate, oltre che dal rotolo continuo dei versi di Frasca, che le inseguono pagina dopo pagina, da un’acuta postfazione di Lorand Hegyi. Ma soprattutto, direi, da una manciata di versi, posti ad apertura del volume, di Michelangelo Buonarroti: «Molto diletta al gusto intero e sano / l’opra della prim’arte, che n’assembra / i volti e gli atti, e con più vive membra, / di cera o terra o pietra un corp’umano. / Se po’ ’l tempo ingiurioso, aspro e villano / la rompe o storce o del tutto dismembra, / la beltà che prim’era si rimembra, / e serba a miglior loco il piacer vano». Il frammento di sonetto, scodato delle terzine, è databile (stando all’ultima edizione delle Rime e lettere, quella a cura di Antonio Corsaro e Giorgio Masi pubblicata l’anno scorso da Bompiani) al 1557-’60; ed è uno dei componimenti di Michelangelo che più acutamente metta a tema l’atto della mimesi artistica: l’assembrare le fattezze di un corp’umano nelle più vive membra – più vive anche perché più a lungo resistenti, più durature – delle materie dell’arte plastica. Così che la beltà originaria, col suo così fragile piacer vano, possa essere rimembrata anche dopo che su di essa si è prodotta l’azione devastante del tempo ingiurioso, aspro e villano.

Con «furiosa» torsione sintattica, e fissità dell’immagine verbale, squisitamente manieristiche, questi versi fanno rimare l’assembrare con il rimembrare, le membra e il loro dismembrarsi. Dunque collegano l’arte di far somigliare un simulacro al suo referente all’atto della memoria, passando per il tramite del corpo: della sua umana caducità. Ma nella nostra memoria poetica, è il caso di dire, il verbo rimembrare, associato oltretutto alla beltà, non può che richiamare un esemplare più recente, e molto più canonico, di quello michelangiolesco (del quale, peraltro, è possibile abbia tenuto conto). A Silvia di Leopardi, infatti, inizia proprio con rimembri. Questa memoria è attribuita, con sottile gioco di specchi, al personaggio che è in effetti oggetto della memoria di chi scrive: un soggetto che non può impedirsi di tornare con la mente alla beltà che splendea – quand’era ancora in vita – negli occhi ridenti e fuggitivi, e poi nella man veloce, nelle negre chiome, forse soprattutto nella voce col suo perpetuo canto, della giovane recanatese Teresa Fattorini adombrata dal senhal tassiano. La quale a ben vedere (lo ha mostrato Franco D’Intino in un bellissimo saggio) altro non è che un fantasma, un revênant (che nella fattispecie riprende il motivo persefoneo della Kore adediretta, la «ragazza indicibile» che ciclicamente torna fra i viventi). Anche Leopardi, dunque, sta ragionando – con linguaggio diverso da quello michelangiolesco, certo – sul proprio modo di assembrare ciò che rimembra: a sua volta facendo cioè, della materia verbale, qualcosa di aëre perennius. (E infatti è alle sue parole che dobbiamo, oggi, la memoria della beltà di Teresa.)

A modo loro lo stesso fanno Monica Biancardi e Gabriele Frasca (il quale tanto spesso infatti, nella sua formidabile – quanto accademicamente svillaneggiata – produzione saggistica, ha ragionato sul rapporto di emulazione – ma anche spettrale sostituzione – fra la trasmissione della memoria genetica e quella che si produce in forma non genetica, mediante parole e immagini). E lo fanno nel corpo vivo del loro lavoro comune: l’una costruendo una «drammaturgia» dell’assembrare e del rimembrare, prima che nelle immagini video, nella costruzione del suo libro; l’altro, nelle medesime pagine, inseguendo da par suo le immagini della fotografa, annosa complice. È Hegyi a spiegare bene come la «coerenza materiale» di Biancardi, che assembra corpi viventi a elementi inorganici (per esempio architettonici), sia solo un esempio del meccanismo del pensiero che riscontra, nel presente, continue rimembranze di immagini agenti che serbiamo nella memoria: l’air de famille di cui parla Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, o il somigliante sul quale spesso si è interrogato Benjamin.
Il lavoro di Biancardi si dispiega nel tempo perché – come nello sviluppo analogico delle vecchie immagini fotografiche – ogni immagine-matrice necessita di una certa decantazione. Sino a ispirarle, magari a distanza di anni, disegni (riprodotti da Sonnoli nel corpo del testo di Hegyi) che dell’immagine prima riprendono magari pochi tratti – nervature strutturali o motivi decorativi che però, «baroccamente», si rivelano a loro volta portanti. Per esempio, esposta al Nitsch, dell’immagine dialettica composta dal sipario (che una didascalia ci informa relativo a un dramma di prigionia e liberazione, Fidelio) e dall’autoritratto col vestito rosso, è presente anche l’immagine-nesso, il link disegnato a mano che, dell’immagine-eco, finisce così per fungere da «cartone» programmatico. Un diagramma composto dalla memoria della prima immagine non meno che dalla sua rielaborazione fantastica.

Perciò c’era bisogno dell’ulteriore immagine rappresentata dai versi: quelli di Michelangelo e quelli del suo emulo di cinque secoli dopo. È costitutivamente, strutturalmente poetico questo lavoro sull’immagine che calca e ricalca la memoria del mondo: perché ogni volta compone, con quella matrice, quella che è, a tutti gli effetti, una rima mentale. Colpisce che il nostro poeta che sulla rima più ha lavorato, in questi trent’anni e passa, proponga in questa occasione un testo che di rime è del tutto privo. Perché l’intero suo testo, in effetti, rima: colle immagini e, loro tramite, col mondo. Colla sua beltà, col suo piacer vano. Che il tempo, troppo presto, provvederà a dismembrare ingiurioso.