Betty Davis, l’urlo del funk
È scomparsa nella sua casa di Pittsburgh l’artista afroamericana pioniera del genere. È stata la seconda moglie di Miles Davis
È scomparsa nella sua casa di Pittsburgh l’artista afroamericana pioniera del genere. È stata la seconda moglie di Miles Davis
Ci ha lasciati a 77 anni, lo scorso 9 febbraio, Betty Davis, la più volte ribattezzata «regina del funk», spesso liquidata come «la moglie di Miles Davis». Viveva da lungo tempo in pressoché totale isolamento, refrattaria e ostile a ogni ricordo relativo alla sua carriera, sostanzialmente finita a metà degli anni Settanta. Betty Mabry nasce in North Carolina nel 1945, luogo in cui essere neri non era facile e dove i genitori e la nonna le trasmisero la passione e l’amore per il blues. Negli anni Sessanta Betty decide di andarsene da un luogo ottuso e discriminante e a 17 anni approda nella cosmopolita New York, sfruttando la sua avvenenza per mantenersi, lavorando come modella per riviste come Ebony e Glamour. Frequenta il Greenwich Village dove sta fiorendo una scena artistica, culturale e musicale multirazziale, libera e stimolante. Mette a frutto anche il suo talento di compositrice, scrivendo per i Chambers Brothers una piccola hit come Uptown to Harlem, nel 1967, e registrando una serie di sfortunati 45 giri soul. Scrive di amore ma in un’accezione libera, dove è la sessualità l’elemento prevalente e non sono concepiti ostacoli o limiti. Frequenta personaggi come Eric Clapton, Jimi Hendrix e Sly Stone che ne influenzano la direzione artistica e le scelte di vita. Coraggiosa e spericolata, abbandona il lavoro da modella perché «non serve il cervello per farlo e dura solo fino a quando avrai un bell’aspetto». Nel 1967 incontra Miles Davis. Si sposano poco dopo (e da questo momento diventerà per sempre la signora Davis) ma sarà un matrimonio violento, estremo e destinato a concludersi solo un anno dopo, con Miles che l’accusa di tradimento con Jimi Hendrix. «Ogni giorno vissuto con Miles è stato un giorno in cui mi sono guadagnata il cognome Davis». Betty e Miles però continueranno a vedersi e frequentarsi, in amicizia. Allo stesso modo il grande trombettista diventerà amico di Jimi.
UNA NUOVA ESTETICA
Il ruolo di Betty nella carriera di Miles Davis è fondamentale. Lo introduce alle nuove sonorità rock psichedeliche, stilisticamente lontanissime dal rigore del jazz ma soprattutto gli cambia l’estetica. Addio ai rigidi abiti gessati, cravatte e camicie stirate e spazio a giubbotti di pelle, foulard, spesso disegnati da lei, un aspetto più trasandato, di marchio sempre più «afro» e colorato, in linea con i tempi. Miles ricambia volendo la sua faccia sulla copertina dell’immortale Filles of Kilimanjaro (nel quale c’è un brano esplicitamente dedicato a lei, Mademoiselle Mabry) ma soprattutto spingendola a mettersi in gioco, a cantare, comporre, salire su un palco. La porta in studio facendola accompagnare dal meglio in circolazione, musicisti come Herbie Hancock, Wayne Shorter, John McLaughlin e la sezione ritmica che accompagnava Hendrix nella sua ultima fase (Billy Cox e Mitch Mitchell). I risultati, pur molto interessanti, vedranno la luce solo decenni dopo. Nel 1973 finalmente arriva all’omonimo album d’esordio. Aiutata da Miles e da una serie di eccellenze della scena funk (da membri della band di Santana a Greg Errico degli Sly and The Family Stone, alle Pointer Sisters), sforna otto brani autografi di una potenza inaudita. Componeva tutto, registrava le idee su una cassetta, cantava la linea melodica e poi la consegnava ai suoi musicisti, incitandoli ad essere il più rozzi possibile. Il suono è crudo, duro, lei urla, rauca, violenta, immediatamente riconoscibile. I testi sfidano il «comune senso del pudore», provocano deliberatamente. «A volte rendevo gli uomini rigidi con me, invece le ragazze erano molto più ricettive». I ritmi sono funk ma le chitarre guardano all’hard rock, arrangiamenti crudi ed essenziali, l’approccio aggressivo, la sessualità esplicitamente esibita nei testi. Seguiranno They Say I’m Different e Nasty Gal ma nessuno degli album avrà particolare successo. Troppo estrema la proposta, tanto quanto la presenza sul palco, altrettanto aggressiva ed eccessivamente sensuale per i parametri dell’epoca.
La pettinatura afro, bikini striminziti, posizioni che lasciano poco all’immaginazione ne fanno, non di rado, per i critici, una sorta di esibizionista, offuscando il contenuto sonoro e la proposta artistica. Betty è una salutista, rigorosa, lontana da ogni tipo di eccesso e abuso, in tempi in cui le droghe giravano a valanga. Il suo obiettivo è chiaro e lucido: proporre una musica nuova, oltre gli schemi, accompagnandola da un live act originale e senza filtri. In un momento in cui la comunità nera è ancora bersaglio politico e sociale lei si presenta da sola su un palco, in modo audace, senza paura, libera, lontana da stereotipi e compromessi, dimostrando di potere fare ciò che vuole. Troverà opposizioni e boicottaggi, sia da parte delle istituzioni che della comunità nera che non le perdoneranno un approccio così personale e individuale. «Ho scritto dell’amore, davvero, di tutti i livelli dell’amore. Nessuno scriveva nel modo in cui lo facevo io. Ora lo fanno tutti, è diventato un cliché».
PROVOCATORIA
Sempre provocatoria ma estremamente lucida e spietata nella sua disamina sul ruolo assunto in epoca di rivendicazioni dei diritti per le donne: «Come potrei essere definita femminista con le canzoni che scrivo? Non ho mai pensato che ai tempi le donne potessero avere il potere. L’unico lo avevamo in camera da letto ma non avevamo alcun potere politico». Pur nella complessità della rivendicazione dei propri diritti, la comunità nera rimaneva ancorata a una visione della donna non diversa da quella della società bianca dei tempi. Una donna remissiva, pura, sottomessa, dedita alla casa e alla famiglia. L’esatto contrario dell’immagine della Davis. Nasty Gal del 1975 esce per una grande etichetta, la Island, contiene un brano, You And I, scritto in coppia con Miles Davis (che suona la tromba), arrangiato dal genio Gil Evans in cui constata malinconicamente l’impossibilità di riconciliazione con l’ex marito. È il congedo definitivo. Il disco è ancora una volta troppo estremo per sperare in un posto al sole. L’etichetta rifiuta di pubblicarne il seguito, che verrà ripescato solo anni dopo nell’album Is it Love or Desire?, confermando l’alta qualità artistica e l’attitudine mai cambiata.
Betty Davis scompare dalla circolazione. «Quando mi è stato detto che era finita, l’ho accettato. E d’altra parte nessuno è più venuto a bussare alla mia porta». Torna a Pittsburgh, distrutta da anni troppo intensi, trascorsi sotto ai riflettori, a fianco di alcuni tra i più grandi geni della musica e dell’arte, spesso colpita e ferita da critiche e ostilità. Se ne va per un anno in Giappone, dove suona ancora in qualche club con un gruppo locale ma dove scopre anche la spiritualità e abbandona per sempre ogni idea di tornare alla musica. «Con l’età il tuo aspetto cambia, preferisco lasciare i miei fan con quello che hanno avuto». Qualche anno fa il regista Phil Cox le ha dedicato il documentario They Say I’m Different. Ci ha messo quattro anni per raggiungere Betty Davis, isolata nella sua volontaria reclusione a Pittsburgh. Con molta fatica è riuscito a parlarle, telefonicamente, a carpirne alcune dichiarazioni. «In fondo è meglio che parlino di me intanto che sono viva piuttosto che quando sarò morta». Ne ha ricavato un’oretta di documentario in cui le rare (e confuse) parole di Betty (che non compare mai) si intersecano con immagini d’epoca, testimonianze dei compagni della band che la chiamano al telefono ma dopo qualche secondo di cordialità, vengono decisamente respinti. Un lavoro che tributa il giusto omaggio a un’artista eccezionale. «Non mi sono mai considerata una grande cantante. Aretha Franklin e Chaka Khan lo sono. Riuscivo a proiettare i miei sentimenti e quello che intendevo dire in una canzone».
*Ha appena pubblicato il libro «Soul. La musica dell’anima» (Diarkos, pp. 342, euro 18)
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