Bertrand Tavernier faceva parte di una generazione in cui una certa sfrontatezza – il cosiddetto «culot» – era posta sullo scranno più alto delle virtù. È la generazione dei ragazzi nati durante la guerra e cresciuti nell’atmosfera plumbea d’una Francia che la resistenza non aveva affrancato dal passato infame della collaborazione. Il senso di rivolta contro l’aria stantia del dopoguerra accomuna tutti quelli che come Tavernier si sono rivolti al cinema, alla musica, all’arte in genere per sfuggire alla Francia di De Gaulle e di Tante Ivonne. Tavernier non fa parte del gruppo storico dei «Cahiers du cinéma» – e anzi ne sarà sempre una sorta di compagno esterno, come appartenente ad un’altra famiglia; ma il suo atteggiamento rispetto alla vita e al cinema è identico a quello di Truffaut o di Rohmer. Si tratta in un primo tempo di vedere tutto quello che c’è da vedere sul grande schermo. E Tavernier in questo senso era un perfetto topo da cineteca. Come Chabrol, faceva a gara per memorizzare ogni dettaglio di un film, compresi i nomi di tutto il cast tecnico. Più del gruppo dei «Cahiers», la sua cinefilia sarà assolutamente onnivora.

DELLA SUA CINEFILIA ha parlato alla prima persona nel Viaggio attraverso il cinema francese (2016) – un bel film documentario che è al tempo stesso diario, un’opera storica e una sorta di testamento. Anche qui, grande «culot»: raccontare la propria vicenda incastrandola dentro la storia più ampia della storia del cinema francese come fossero tutt’uno. Una storia che Tavernier comincia negli anni trenta, dieci anni prima della sua nascita a Lione (la città del «primo film» alla quale resterà sempre legato). È il decennio in cui nasce quel cinema francese moderno con il quale i cineasti della Nouvelle vague cercheranno poi un legame ideale. I campioni di cui Tavernier si riempie gli occhi sono ovviamente Jean Renoir, Marcel Carné. Ma anche Julien Duvivier e Jean Grémillion. Nella sua Storia del cinema francese restituisce un ritratto vivissimo e molto preciso di quegli anni.
Di tutti i padri, il cineasta che influenza di più Tavernier regista è Jacques Becker. Becker maestro di precisione, osservatore maniacale dei gesti e del lavoro operaio. Ma prima di passare alla realizzazione, Tavernier deve farsi le ossa con altri mestieri. Il più naturale è quello di critico cinematografico, che in un certo senso non ha mai abbandonato.

PER ENTRARE nel mondo della produzione passa attraverso un mestiere intermedio, tra la stampa e la produzione, quello di addetto stampa. È lui segnatamente che presenta il lavoro di Stanley Kubrick. Ma anche di Jean Luc Godard (con il quale lavora per Pierrot le fou).
L’occasione di lavorare su un set gli è data da un altro compagno di strada della Nouvelle Vague: Jean-Pierre Melville. Melville in realtà è una meteora. Una sorta di cowboy solitario del cinema degli anni cinquanta e sessanta che inventa una sorta di studio hollywoodiano in miniatura nella periferia di Parigi. Anche Melville, come Becker, è un cineasta artigiano, che guarda alla lezione di rigore propria del cinema di serie B americano, inscrivendone la forma nella realtà della Francia del dopoguerra. A questa lezione anche Tavernier regista sarà fedele fin dal primo successo: L’Horloger de Saint-Paul (L’orologiaio di Saint-Paul, 1974), che adatta un romanzo di George Simenon. Il film è esemplare di quegli ingranaggi tragici in cui cadono gli eroi dei polizieschi americani. Nel ruolo principale c’è già Philippe Noiret che diventerà una sorta di alter ego del cineasta (i due, come ogni vecchia coppia, finiranno per assomigliarsi anche fisicamente).

A PARTIRE da quel primo successo, Tavernier gira a ritmo di un film l’anno. Mentre la Nouvelle vague si spegne, o si radicalizza in una nicchia, dal lato di Jean Eustache o di Philippe Garrel, Tavernier si impone come un nuovo modello di cineasta erede del cinema d’autore di qualità, basato su una sceneggiatura solida e orientato a difendere un punto di vista sul mondo contemporaneo. Tavernier si erge contro il colonialismo e il razzismo (Coup de torchon, 1981). Cerca di raccontare il quotidiano di una brigata criminale rompendo con i canoni del genere (L.627, 1992). Sculaccia i costumi lascivi e la voracità della nuova borghesia (L’Appat, L’esca in Italia, 1995). Nell’ultima parte della sua carriera scopre il documentario che usa per parlare della guerra d’Algeria, ferita mai veramente sciolta della Francia del dopoguerra (La Guerre sans nom, 2002). E per il già citato Voyage à travers le cinéma français, un’opera al tempo stesso didattica e ludica, un approccio «positivo» se non «positivista», che cerca meno di pensare delle tendenze del cinema che di descriverne il fatto fondamentale: c’è stata una storia del cinema, ed è ancora tutta da scoprire.