È un buon segnale che i dubbi creativi tornino ad assalire i fashion designer. È il sintomo di quanto la moda si sia decisa a ripensare se stessa nella compatibilità con il mondo in cui vive. Il pensiero non riguarda solo le ispirazioni e le aspirazioni della moda, ma addirittura il ruolo e il significato stesso del mestiere dello stilista, come si chiamava la figura artistico/professionale fino a qualche decennio fa. Nominato da poco alla direzione creativa di Schiaparelli, Bertrand Guyon scende fin nel profondo del significato del suo lavoro e, addirittura, si interroga prima sulla sua stessa definizione. Visto che è alla testa di un marchio che fa solo couture, è giusto che venga definito designer? Alla domanda un po’ provocatoria, ma bonaria, Guyon risponde con la sua storia professionale. Giovanissimo, Guyon ha cominciato a lavorare al fianco di Hubert de Givenchy.

Il conte della Haute Couture che ha creato l’immaginario di una diva come Audrey Hepburn aveva una disciplina ferrea, racconta Guyon che, per volere del maestro, cominciava a lavorare molto presto al mattino per finire alla sera molto tardi. La sua formazione, quindi, è avvenuta tra l’abilità del disegno, la tecnica del metro e la precisione delle forbici. Quindi, nell’epoca della tecnologia, Guyon potrebbe definirsi un couturier che, trovandosi a rivitalizzare un marchio che non esiste più dal 1954, quando Madame Schiaparelli ha chiuso l’atelier di Parigi, per prima cosa si trova a verificare se quello stile, che tanto deve al Surrealismo e ai legami con l’ambiente artistico parigino anteguerra, è ancora compatibile con la donna di oggi.

Di conseguenza, questo couturier che convive con l’era digitale si trova a verificare anche la validità degli archivi della Maison che da una parte considera indispensabili per la conoscenza storica, dall’altra sono meccanismi, per raccontare l’oggi. Dal lato opposto di questa riflessione c’è chi, come Milan Vukmirovic che è arrivato alla moda selezionando abiti per un concept store di Parigi per poi arrivare alla direzione creativa di Jil Sander, di Trussardi e ora di Ports 1961, crede che la moda debba avere lo stesso consumo veloce di una fotografia postata su Facebook e Instagram e perciò parla di una «moda fotogenica». In questa concezione c’è più l’idea di una moda che si autogenera a partire dal consumo di chi già la usa che di una moda che crea una visione per essere utilizzata nel futuro, in una prevalenza dell’immagine sul contenuto. Per giustificare questa impostazione, Vukmirovic lamenta l’organizzazione globale del Fashion System che ha privato i creativi del tempo della riflessione.

A metà strada tra la prima e la seconda, c’è tutto il resto della moda che naviga guidata alternativamente da timonieri alla ricerca di approdi di contenuto e altri che la spingono sui lidi dell’apparenza. Anche in questo, nulla di nuovo. È la stessa situazione degli Anni 80 del secolo scorso, quando l’edonismo estetico ha consumato talenti e aspirazioni lasciando lo spazio al minimalismo concettuale del decennio successivo. Allora, il repulisti fece nascere Miuccia Prada, a tutt’oggi è il faro a cui si rivolgono tutti i creativi della moda, come nei ’70 si rivolgevano a Yves Saint Laurent. E questo vuol dire che la strategia vincente della moda è sempre stata costruita con il pensiero che produce l’immaginazione, la visione, la proposta.

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