In attesa di «Challengers», il nuovo film di Luca Guadagnino in uscita il prossimo 25 aprile, riscopriamo un suo documentario diretto insieme a Walter Fasano «Bertolucci on Bertolucci», che viene proiettato stasera alle 19 al cinema Farnese di Roma, alla presenza dei due registi, in un appuntamento eccezionale della rassegna Solo di martedì. Per l’occasione, riproponiamo un estratto dell’intervista a Guadagnino durante la Mostra di Venezia, dove il film era stato presentato, apparsa su Alias il 31 agosto 2013.

Bernardo Bertolucci, presidente della giuria, parlerà al pubblico internazionale di Venezia anche grazie al film di Luca Guadagnino e Walter Fasano Bertolucci on Bertolucci, elaborato dalle scoperte fatte negli archivi di cinema e da una questione di affinità elettiva che rende questo film una delle sorprese più attese della Mostra. «L’ho diretto a quattro mani insieme a Walter Fasano, un montatore che ha un’esperienza ventennale – dice Luca Guadagnino – ha lavorato spesso con me, quindi questo film lo posso considerare come un’opera realizzata realmente insieme. È un documentario speciale che utilizza materiali che di solito non si vanno proprio a cercare e, in questo caso specifico, l’idea di operare delle cuciture, dei ricami su tanti materiali di archivio e di lasciare al montatore la possibilità di generare un’architettura, una sinossi, hanno dato al gesto stesso del montaggio – che può anche ridursi a un gesto minimo di servizio, quello di accostare delle inquadrature – una fortissima autorialità. Ed è per questo che adesso il film diventa mio e di Walter»

Lo spunto era nato al festival di Pesaro…

Giovanni Spagnoletti, che preparava la nuova edizione del festival, aveva pensato di invitare Bertolucci come ospite di una master class e prima che girasse Io e te, mi disse: ’Perché non vieni a fare le riprese?’. Nel momento in cui accettai, pensai che doveva essere una sorta di miccia per generare un progetto più grande, qualcosa che partisse da un mio desiderio che ho sempre coltivato: realizzare la versione filmica di un certo tipo di libri che hanno formato me e Fasano, i saggi di cinema in cui viene data la voce all’autore, come Hitchcock on Hitchcock, Ford on Ford, o il libro di Bresson. Ci siamo chiesti come questa master class potesse essere trasformata in una sorta di saggio filmico in prima persona singolare di un maestro. Piano piano siamo sprofondati negli archivi, in queste miniere straordinarie, abbiamo trovato tanto materiale, così esaustivo, profondo e variopinto, anche a livello visuale, che le riprese fatte a Pesaro sono diventate qualcosa di lontano, non le abbiamo più toccate e ci siamo immersi nell’archivio. Da lì, è nato il racconto in prima persona singolare di Bernardo che non è cronologico, ma è un perenne presente, tipico di chi è – come lui – il Cinema che batte il tempo.

Quindi nessun un procedimento temporale. Siete rimasti più colpiti dalle immagini trovate negli archivi…

Abbiamo trovato sorprese, cose rare, contraddizioni che però rappresentano il potere straordinario del pensiero di Bertolucci. Ci siamo resi conto che Bernardo è anche un grandissimo attore, con la sua capacità di affabulazione che fa apparire parecchi altri come dei nani. Abbiamo esplorato l’istituto nazionale degli audiovisivi francesi, l’Ina, la Bbc, la Rai l’Istituto Luce, alcuni lavori fatti su Bernardo come Le Voyageur italien di Fernand Moszkowicz, una sua conferenza tenuta a Vienna per la scuola psicoanalitica di Freud.

Qual è l’elemento che appare più evidente nel vostro lavoro?

La cosa che mi colpisce è il fatto che Bertolucci appaia inestricabilmente incarnato nel concetto di Cinema con la «C» maiuscola. Questo è quello che viene allo scoperto con grande evidenza: in un momento in cui il potere ipnotico di levatrice che ha il cinema, di generatrice di un mistero luminescente (caratteristica sulla quale io mi sono formato, ma anche Walter), viene misconosciuta, ridicolizzata con un profondissimo revisionismo, è fondamentale ritrovare una figura di cineasta come Bernardo. Un’importanza che va al di là del mero significato industriale, di intrattenimento del cinema. In lui, vita, pensiero, corpo sono sostanzialmente identificati con un’arte come il cinema. Di fronte alla piccolezza di film e di alcuni registi, questa è la cosa più potente, che spero sia evidente nel documentario.

La piccolezza di cui parli si riferisce in particolare al cinema italiano?

Il cinema italiano purtroppo, a livello formale, di significato e coscienza politica, a livello di osare al di là dei banali narcisismi e stupidi virtuosismi è un campione ineguagliato del minimo che si possa fare. Questa crisi, però, che nasce da una sorta di comando ideologico, da una iperideologizzazione del cinema come industria, si riflette in molte dinamiche di molte cinematografie del mondo, quello francese ad esempio, quello hollywoodiano che attraversa una delle sue fasi meno interessanti, secondo me, della sua storia. Incredibilmente standardizzato anche negli esiti più elevati: pensiamo a The Master di P.T. Anderson, in cui il regista osa il gesto di girarlo in 70mm in completa antistoricità rispetto ai mezzi di ripresa attuali ed è un film che va in controtendenza assoluta con il concetto narrativo del cinema contemporaneo. Penso a Scorsese che invece declina costantemente se stesso così da non perdere mai il tocco d’oro o la possibilità di fare cinema, usando DiCaprio e facendo sempre delle storie appealing per l’industria. P.T. Anderson, invece, va nella sua direzione assolutamente personale, eppure tu vedi questo film in 70mm e trovi troppo linguaggio standardizzato, vedi un film che non può fare a meno del gesto registico, del campo e controcampo, del primo piano usato in termini non espressivi, ma come fosse una distanza di sicurezza per lo spettatore. Questo non accadeva anni fa.

Non vorrei tornare troppo indietro, ma emerge dai vostri materiali il senso di fare cinema assorbito da Bertolucci negli anni delle nouvelles vagues?

Quello spirito della nouvelle vague – per usare una espressione semplificatrice – è ancora oggi ineguagliato e, per quante critiche si possano fare, quello spirito rivoluzionario che si tenta di demolire e rendere oscuro, determinare la morte della consapevolezza nel pubblico, negli spettatori e nei giovani cineasti, resiste ancora profondamente, pure soltanto per come ci si relaziona tra le persone. Pensa alla canea disgustosa e pregiudiziale che è accaduta intorno al film Sangue di Pippo Delbono che io non ho visto e quindi non posso entrare nel merito, come molti invece hanno fatto. Ma posso difendere lo spirito che informa la presa di posizione di Delbono, la cui storia e il cui percorso artistico sono inequivocabili e non possono essere ridotti a tutte quelle stupide opinioni che ho letto sui giornali.

Avete anche incontrato Bertolucci a conclusione della ricerca o avete solo lavorato sui materiali?

Noi abbiamo lavorato per due anni e mezzo al film, in solitaria. Non ho sentito per molto tempo Bernardo e mi è dispiaciuto non avergli potuto dire quando avessi trovato sublime il suo ultimo Io e te. Poi l’abbiamo chiamato e gli abbiamo detto che ci sarebbe piaciuto che vedesse il film. «Certo, lo devo vedere e dare il mio permesso di proiettarlo…», ha detto e, alla fine, ci ha dato il permesso.

Ha scoperto qualcosa di inaspettato?

Sono immagini molto profonde, mi piace unirmi a quelli che pensano che il cinema sia particolarmente vicino alla psicoanalisi. Mio padre mi fece vedere Novecento e Apocalypse Now quando avevo dieci anni, nell’81 e mi traumatizzò. Io gli sarò eternamente grato per questo. Soprattutto Novecento mi ha insegnato che l’écran ha bisogno di molto spazio mentale e che non ci possono essere confini sul novecento italiano, sul fascismo e sulla resistenza. E poi, che bellezza un film con corpi hollywoodiani e francesi che interpretano contadini e aristocratici della bassa! Penso di avere sempre davanti a me la lezione di Bernardo, anche se è non è da lui dare lezioni. È il gesto che conta. Bernardo parla sempre della joie de vivre: ecco questa idea di joie de vivre non può che essere entusiasmante e dovrebbe accompagnarci tutti, anche nei momenti più bui, più critici delle nostre vite e dei nostri percorsi pubblici, civici e culturali. Perché in genere, si tende a non accettare l’entusiasmo. Sto producendo il film di un giovane regista, Ferdinando Cito Filomarino (Pardo di domani con il corto Diarchia a Locarno, ndr) sulla poetessa Antonia Pozzo in questi giorni a Milano, con grande difficoltà a causa dei soldi che devono essere cercati col lumicino. È un film che si svolge negli anni Trenta, girato oggi a Milano, immagina cos’è un’opera prima di un regista di ventisei anni. Eppure, l’idea di vedere l’attività di un gruppo di persone comandate da un giovane uomo – o nel caso da una giovane donna – che crea con un entusiasmo e una passione straordinaria e come se non fosse mai passata addosso a loro quella marea nera del compromesso e dell’autocensura, ma anzi spingono in maniera profonda quello che fanno, è un sentimento di gioia talmente eccezionale che le difficoltà finanziarie, il caldo di Milano, l’idea che ancora non esiste una distribuzione per il film in Italia, sono tutte superate. Perché, come dice Bertolucci, bisogna «abbandonarsi alla joie de vivre» e «lasciare la porta aperta alla realtà», come dice sempre lui citando Renoir.

Per gli spettatori a Venezia il vostro film quindi potrebbe essere anche una bella scuola di vita

Mi auguro che a Venezia venga visto da molti spettatori e che ci si culli per un’ora e cinquanta dentro questo suo lunghissimo primo piano e la sua bellissima voce. E che dai volti, dalle voci e dalle epoche che si accavallano si riesca a trarre piacere, proprio come si godrebbe di un film spettacolare. Questo è uno spettacolo in altro senso.