Bersani che nel 2005 decide di non correre per la segreteria dei Ds; e nel 2007, Pd neonato, si ritira contro Veltroni «perché la nostra gente non capirebbe lo scontro». È il momento perfetto per leggere la «biografia atipica» del segretario Pd, all’indomani dal «congelamento» della sua premiership da parte del Colle e alla vigilia di un possibile, chissà, ritorno in auge della sua ipotesi di governo. Lettura utile e dilettevole come un sorbetto fra le portate, per meditare su come proseguire il pranzo. Bersani (Editori Internazionali Riuniti, 306 pagine), di Ettore Maria Colombo, cronista parlamentare giovane ma già di lungo corso, ben scavato di cose cattoliche e di sinistra da cui trae formidabili strumenti per leggerne la vicenda, è un libro immaginato quando il protagonista aveva ottime speranze di governo; un’era politica che si è fermata sabato scorso, messa in freezer] dal presidente Napolitano. Un libro scritto ieri perfetto per leggere l’oggi. «Empatico», per ammissione dello stesso autore, ma intelligente e onesto dell’onestà cui costringe la passione per la cronaca politica. E per questo racconta il Bersani con il vento in poppa che è lo stesso di queste ore in cui la sorte gli ha riservato un’amara battuta d’arresto.
Colombo ricostruisce il giovane chierichetto bettolese «bello come Sean Penn» che si innamora ragazzino di Daniela (Ferrari) e non ne ha «da pentirsene»; l’insospettabile studente che fa sciopero da solo; il giovane di Avanguardia operaia che medita Gregorio Magno, legge Mao ed è addirittura «di piegatura trozkista»; ma quando arriva a contatto col Pci (contatto ravvicinato, in un comizio a Bologna, un compagno del servizio d’ordine lo scansa con un calcio al polpaccio) resta fatalmente conquistato dal fascino del Pci-partitone. Il gruppettarismo non fa per lui, ammette, «l’impianto strutturalmente minoritario» di Ao gli lascia «un senso di impotenza». C’è già tutto Bersani in quella scelta: qualcuno, come lui, era comunista per non sentirsi impotente, politicamente parlando. E la politica «è una cosa seria, e allora bisognava farla seriamente, insieme agli altri, mettendo in conto le diversità di opinione, ma partecipando a una forza capace di incidere davvero». Da qui nasce il poi famoso senso di partito, la «ditta». Se ne può anche gustare l’indimenticabile caricatura di Maurizio Ferrini: «Se i comunisti rubano, avranno le sue ragioni», precorreva con classe lo «smacchiatore» di Maurizio Crozza; ma nel caso di Bersani è la granitica convinzione che l’organizzazione sia lo strumento imprescindibile dell’azione politica e dell’avanzamento di una moderna democrazia dei partiti. Da quegli anni 80 parte il lungo cursus honorum: da amministratore in Emilia Romagna, poi ministro, e infine leader nazionale che due volte, prima di quella giusta, sale sulla rampa di lancio alla leadership (dei Ds, del Pd): ma quand’è al dunque, rinuncia.
Ettore Colombo indugia nel racconto proprio dei momenti in cui Bersani si fa indietro per il bene della «ditta»: per presentimento, o meglio perché individua in questi frangenti la cifra essenziale dell’uomo e del politico, la sua natura. Sarà bene rileggerli in questi giorni per rendergli giustizia dalle accuse di arroccamento che piovono, dentro e fuori Pd, da quelli che tifano per le ennesime larghe intese, tecniche o politiche che siano.
Il libro ci restuisce il Bersani che solidifica il partito che Veltroni aveva reso «liquido» e americaneggiante. Che vince il congresso sull’idea di una «sinistra che torna nei posti di lavoro» ma a palazzo cerca gli accordi con il centro; che viene bollato come laburista dagli avversari di partito più che da quelli esterni, e che in realtà invece abbonda in moderatismo di rito emiliano (ormai si dice «riformismo», come appunto un tempo il Pci definiva la destra interna) che lo porta, nella scorsa campagna elettorale, a sottolineare troppo gli accordi con i moderati: finendo fatalmente per demoralizzare l’elettorato di sinistra (Sel), il proprio e persino quello dei moderati.
«Bersani è così lontano dall’essere un comunista quanto Berlusconi è lontano dall’essere un modello di rettitudine», ha scritto Bill Emmott sul Financial Times. Infatti non è percepito meno affidabile di Mario Monti dai ‘mercati’ e dalle istituzioni finanziare internazionali. Giustamente, dal loro punto di vista: è ormai riconosciuto ‘ministro liberalizzatore’ per antonomasia. Infatti a fine 2011, alle prime prove del governo ‘tecnico’ del professore, che distribuiva lezioni magistrali di mercatismo a destra e a manca, da manca Bersani si è cavato il gusto di tuonare: «Siamo stupiti, se non stupefatti, dalla debolezza del governo sul tema delle liberalizzazioni».
Rileggere Bersani oggi serve a conoscere fino in fondo il presidente del consiglio che Napolitano ha «congelato». Se alla prossima curva uscirà dal freezer e riuscirà a fare un governo di centrosinistra, sapremo con chi abbiamo a che vedere. Se no, sapremo quello che ci siamo persi, a futura memoria.