Se l’intenzione di Matteo Renzi era quella di abbassare i toni nello scontro interno in vista delle prossime prove del suo governo, le parole stavolta non gli sono venute bene. L’accusa di «slealtà» lanciata dal palco dell’assemblea nazionale verso le minoranze non hanno rasserenato il clima. Anzi. Pier Luigi Bersani, che non è andato all’hotel Parco dei Principi di Roma a causa di un diplomaticissimo mal di schiena, ieri ha replicato senza cordialità: «Non da tutti i pulpiti si possono accettare prediche sulla lealtà». L’ex segretario forse non aveva in mente l’istantanea di Renzi e Enrico Letta alla gelida cerimonia del cambio di consegne, foto che è tornata a circolare sui social network domenica a illustrazione della personale idea della lealtà renziana. Bersani ricorda piuttosto gli «sleali» che affossarono Prodi all’elezione presidenziale il 19 aprile 2013. L’allora sindaco di Firenze fu il primo a commentare: «La candidatura di Prodi non c’è più». Il più veloce a twittare, ma anche ad archiviare il professore. Di lì a poco Bersani si dimise.
Stavolta è Renzi a temere i ritorno dei 101, magari non gli stessi. L’ex segretario non sarà tra questi («A Renzi auguro di avere molti Bersani in giro»). Ma l’insistenza di molti della sinistra Pd sulla scelta del profilo del prossimo capo dello stato è un segnale di allerta.

La scissione del Pd, che non è mai stata nelle intenzioni della minoranza – al netto di Civati -, ora è definitivamente archiviata. Anche le fantasie di rottura degli ultras renzisti si debbono arrendere alla realtà: Fassina non esce («la mia battaglia è dentro il Pd»), Bersani tanto meno («Il Pd è casa mia e ci vogliono i carabinieri a buttarmi fuori. Dopodiché è giusto che io chieda, come tanti altri, che il Pd sia un partito di sinistra»).
Ma i gruppi parlamentari restano ancora simili, per dirla con Matteo Orfini, a «Trono di spade», la serie tv cult tutta trame e intrighi di corte. Il litigio di ieri è sulla valutazione dell’esperienza dell’Ulivo, che Renzi domenica ha definito come la coalizione che ha consumato «20 anni persi a discutere» ed è stata «mandata a casa da nostri errori e nostre divisioni». «Siamo tutti figli dell’Ulivo, tutti quanti, anche Renzi lo è», ha di nuovo replicato Bersani, «l’Ulivo ha avuto la magia di mettere insieme diverse culture riformiste nel rispetto con la stima reciproca, non ha messo insieme dei modernizzatori cavernicoli».
Il lungo colloquio fra Renzi e Prodi, ieri a Palazzo Chigi, che alcuni segnalano come primo passo verso una candidatura al Colle, non ha convinto molti. È un «segnale positivo» per Fassina. Ma c’è poco da farsi illusioni sulla sua candidatura. «Speriamo almeno che dopo questo incontro Renzi non metta più Berlusconi e quanti gli si sono opposti sullo stesso livello di responsabilità per la condizione in cui si trova il paese», ha ironizzato Alfredo D’Attorre. E nella minoranza c’è fa battutacce: «I 101 sono diventati 102».

Del resto ieri pomeriggio nei corridoi di palazzo circolavano altri nomi: quello di Piero Fassino e persino quello di Dario Franceschini, poco graditi alle minoranze Pd, ma comunque di stretta osservanza renziana.
Più delle riforme, e forse anche prima delle riforme, la scelta del futuro capo dello stato sarà l’occasione del prossimo match interno al Pd. L’occasione per riunire all’esercito regolare le truppe ribelli; o, al contrario, quella per esasperarle.

Di certo sarà la scelta cruciale per la futura militanza di Pippo Civati, che è stato il primo – e l’unico fin qui – a chiedere apertamente l’elezione del professore. « Abituati a vedere entrare a Palazzo Chigi Berlusconi, non si può non registrare un cambio di passo. L’incontro di Prodi con Renzi è un bel segnale, finalmente una nota positiva», ammette. «Ma se il Pd avesse davvero intenzione di proporre Prodi qualcuno dovrebbe parlare con i centristi e con i 5 stelle. Qualcuno lo sta facendo? Non mi pare». Sabato a Bologna il deputato ha annunciato che se si tornasse al voto con il programma renziano, lui non sarebbe più della partita. «Se il Pd non sarà interessato alle ragioni di milioni di elettori ce ne faremo una ragione. Nei prossimi mesi, come già in questo autunno, voterò lealmente verso gli elettori le cose che trovo giuste, ma il Pd deve smettere di guardare al proprio interno, smettere di fare giochini di palazzo, e guardare fuori a quello che succede nel paese».