Il suo sogno, questo almeno ha raccontato, era comprare una fattoria. Sognava che avrebbe guadagnato così tanto scrivendo storie per i giornali da potersi permettere di regalare una fattoria ai suoi genitori. Immaginava che in famiglia, c’erano anche un fratello e una sorella, sarebbero stati felici per questa sua sorpresa. All’epoca lei non era che una ragazzina e si chiamava ancora Arline Shandling. Passava i pomeriggi davanti alla vecchia macchina da scrivere di suo padre copiando dai libri dei grandi narratori le frasi che le piacevano di più. Era nata a Long Beach il primo giorno del 1926, ma era figlia di immigrati russi ebrei e in quel sobborgo molto wasp di Los Angeles sentiva di non avere granché da spartire con le compagne di scuola. I suoi non se la passavano bene, durante la Depressione furono costretti a vendere la loro casa con le rose e l’albero di arance, per un po’ abitarono in un bungalow usando i fogli dei giornali come tende per oscurare le finestre. La ragazza Arline tuttavia a scrivere ci provava davvero.

Fece l’insegnante e la giornalista
Pianse tutto il pomeriggio quando da «Harper’s Bazaar» le rimandarono indietro un racconto malgrado avesse lavorato tanto per correggerlo. Poi il padre morì e la madre cominciò a perdere la vista. Finito il liceo lei rinunciò all’idea di frequentare una scuola di danza scegliendo di aiutare la famiglia con lo stesso mestiere del padre, scrittore free-lance per aziende e grandi magazzini. Prima di potersi dedicare esclusivamente alla narrativa, molto prima di essere riconosciuta come una delle più grandi autrici americane di racconti, fu anche insegnante e giornalista. Intanto aveva cambiato il suo nome in Gina e insieme al marito John Berriault, un musicista da cui divorzierà dopo la nascita dell’unica figlia, verso la fine degli anni cinquanta era approdata a San Francisco: avrebbe abitato nella psichedelica Bay Area fino alla morte avvenuta nel 1999. È tuttavia un editore newyorkese a pubblicare nel 1960 il libro d’esordio, The Descent, primo di quattro romanzi. Sempre a New York nel 1965 esce The Mistress, composto da quindici racconti che la scrittrice riproporrà in parte quasi vent’anni dopo nella seconda raccolta, The Infinite Passion of Expectation (1982). Non mancano i premi né gli apprezzamenti della critica, però il suo nome rimane sconosciuto. Resterà un mistero perfino la sua faccia.
Gina Berriault continua a vivere nell’ombra e soprattutto nell’ombra continua a lavorare. Dirà in seguito che l’ombra è rassicurante per chi si sente diverso. Scrive correggendo ogni parola finché ogni parola non produce il suono esatto, lucente e acuminato ma commosso, che il suo pensiero sta cercando. La turba nel 1997 l’improvvisa notorietà cui la espone a settant’anni il successo ottenuto da Women in their Beds, la sua ultima raccolta di racconti. Adottandone il titolo, con Donne nei loro letti di quel libro l’editore Mattioli 1885 propone adesso per la prima volta al lettore italiano, nella traduzione impeccabilmente intonata di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, i diciannove brani rimasti esclusi lo scorso anno da Piaceri rubati («Frontiere», pp. 218, € 16,00). In questi suoi racconti arroventati, splendenti quanto lame di ghiaccio, ruvidi al tatto come gemme appena scavate dalla terra, Berriault continua a narrare la diversità e l’esclusione, osserva la precarietà di ogni umana esistenza, lo scarto impercettibile che può trascinarla verso il fallimento e spingerla a deragliare nel vuoto. È ancora la bambina che sogna di regalare una fattoria ai genitori. È l’orfana che avrebbe voluto spalancare la luce davanti agli occhi ciechi di sua madre.

Le interessavano i dimenticati
«E mi domando – sfuggiamo alla tragedia del mondo per un breve periodo o anche per tutta la vita svolgendo i compiti che ci sono assegnati mentre i diseredati e i rifiutati e i senza casa stanno intorno a noi, e in una stanza delle torture, da qualche parte, da qualunque parte, una persona, uomo donna o bambino, è sola con il nemico di noi tutti?», scriveva in un saggio del 1991. A interessarla sono i dimenticati dalla sorte, gli inaccettabili, coloro che inciampano franando lungo i sentieri impervi della realtà. Cosa spartiscono se non il rifiuto e la dimenticanza, la disattenzione del destino queste donne costrette dentro i loro letti in ospedale, queste signore tradite nel matrimonio, queste ragazze beffate dall’amore e derubate dei figli? E cosa intende offrire alle loro esistenze la scrittrice se non un luogo dove stare, un riparo per la notte costruito con le sue parole? Anche una luce nuova in cui specchiarsi, magari il sogno di un futuro oltre il buio o la speranza della vita che altrove può ricominciare. Lavorando su una terza persona in apparenza molto fredda, calda in realtà poiché la voce che racconta sembra provenire da un luogo molto prossimo alla mente non di chi osserva, ma di chi è osservato, l’autrice non consola né giudica: permette al corpo del lettore di percepire l’alito, il pianto, perfino il sudore dei suoi personaggi. «Avevo sempre la sensazione di camminare a piedi nudi su vetri infranti», dice verso la metà del libro un marinaio a proposito dei quadri dipinti dalla moglie. È l’identica sensazione che proviamo noi mentre ci avventuriamo dentro i racconti di Gina Berriault. Sanguina la nostra pelle tagliata dai frantumi di ciò che noi stessi abbiamo dimenticato di salvare. O che forse abbiamo mandato in pezzi proprio noi.