C’è un fiorire d’iniziative sul “lavoro garantito” nel Partito democratico americano, promosso da Bernie Sanders – sotto la spinta di una ispirazione socialista che lo induce a valorizzare un impegno di lunga data di think tank come il Levy Institute – ma raccolto anche da esponenti centristi con la rivendicazione della superiorità dei servizi pubblici. Il focus sul “lavoro garantito”, soprattutto per i giovani e le donne, costituisce la proiezione nell’immediato della riscoperta di un valore e di un obiettivo considerato obsoleto.

L’obiettivo della “piena e buona occupazione”, finalmente assunto con una energia analitica e una determinazione politica ammirevoli, anticipate dalla Cgil fin dal 2013 con il Piano del lavoro, ora riproposto con fantasia e vigore dalla nuova segreteria di Maurizio Landini. A sua volta l’obiettivo della piena occupazione si radica nell’urgenza di concentrare tutte le forze nel rilancio degli investimenti, pubblici e privati, vivificati in un rinnovato sforzo di grande progettazione per un nuovo modello di sviluppo ricollocando al suo centro le domande su “per cosa, per chi, come produrre”.

A questo grappolo inscindibile di valori e di obiettivi i democratici americani associano il ribadimento della legittimità democratica della tassazione progressiva e la liberazione dalla subalternità al dogma neoliberista della “riduzione oltranzistica delle tasse sempre e comunque”, proponendo, invece, un vertiginoso aumento delle aliquote maggiori per i più ricchi (nelle proposte di Ocasio-Cortez fino al 70%) e una più incisiva imposizione sulle imprese e sui patrimoni.
Tutto ciò dimostra che quando gli argomenti intellettuali si saldano con quelli etici, l’intero contesto politico può cambiare profondamente e rapidamente. Dunque, pensiero ed energia emotiva e morale si confermano risorse strategiche.

Esattamente quelle risorse che difettano alle sinistre italiana ed europee, come argomenta Peppe Provenzano nel suo La sinistra e la scintilla (Donzelli).

Esattamente quelle risorse che mancano del tutto al governo Lega-5Stelle, il quale assai più che per la violazione delle regole del patto di stabilità – pur riprovevole perché utilizza margini di flessibilità per spesa corrente improduttiva destinata a disordinate regalie pensionistiche e a misure assistenziali risarcitorie non promozionali – andrebbe stigmatizzato per la miseria e l’angustia con cui affronta le cruciali scadenze di un Def che cade nel mezzo di un serio rallentamento dell’economia europea e di una aperta recessione di quella nazionale.

Trattare l’occupazione in quanto diritto che deve essere garantito dallo Stato – come postula la nostra Costituzione – è qualcosa di radicalmente diverso dall’atteggiamento presupposto dalla visione paternalistica che si concentra sull’elargizione di benefici monetari al popolo.

Tra l’altro, riportare il baricentro sull’occupazione e sul lavoro – contestando la ineluttabilità della jobless society intrinseca al funzionamento spontaneo del capitalismo – consente anche di trattare le questioni della diseguaglianza non solo come problema redistributivo, facendone una nuova retorica inconcludente, ma anche come problema concernente primariamente la sfera produttiva, l’allocazione, le strutture in cui si articolano i modelli di sviluppo.

Dietro le iniziative sul “lavoro garantito” e sulla connessa idea di utilizzare lo Stato come employer of last resort stanno, oltre a una nobile tradizione teorica (che da Keynes va a Meade, a Minsky, ad Atkinson), le profonde trasformazioni di questi anni che spingono tutti i paesi verso un modello di sviluppo meno orientato alle esportazioni (meno export led) e più centrato sulla domanda interna, per alimentare il quale occorrono interventi mission oriented da parte dell’operatore pubblico, forti politiche industriali e territoriali, energiche iniziative in innovazione e in ricerca.

Dobbiamo respingere la retorica dell’esogenità, della naturalità e della neutralità dei fenomeni tecnologici e riaffermare la possibilità di quella che Atkinson chiamava una direzione pubblica e collettiva dell’innovazione. Infatti, da una parte, a più di dieci anni dall’esplosione della crisi del 2007/2008, l’economia mondiale mantiene un andamento talmente sussultorio che in molti denunziano i segnali del probabile scatenarsi di una nuova grande crisi e parlano di secular stagnation, vale a dire, secondo le parole di Larry Summers, di una “crescita ordinaria realizzata mediante politiche straordinarie e speciali condizioni finanziarie”, le quali incoraggiano il rischio abnorme, un indebitamento malsano, la formazione di bolle che, a loro volta, pongono le premesse per nuove crisi.

In Europa la fine del quantitative easing accentua lo scarto tra il volume di lavoro desiderato e quello reso disponibile da parte delle imprese e qualcuno – per esempio il sindacato svizzero – propone di fissare per legge alle imprese al di sopra di una certa dimensione “standard occupazionali” in termini di European employment guideline (Eeg), una sorta di imponibile di manodopera per il nuovo millennio.

Dall’altra parte assistiamo al manifestarsi di drammatiche problematiche come quella ambientale e all’emersione di enormi bisogni sociali insoddisfatti (che tipicamente modellano la domanda interna), tutte cose che il mercato da solo non risolve, non lenisce, non tratta. La rottura degli equilibri ambientali sta avvenendo a una velocità senza precedenti, mentre nell’abitazione, l’alimentazione, la mobilità, il tempo libero, la cultura, l’istruzione, la formazione, la salute, i bisogni dei cittadini rimangono inevasi e nei territori (dalle grandi aree metropolitane alle piccole e medie città, alle aree rurali e periferiche) la qualità delle vita degrada.

In tutti questi settori e aree andrebbe sollecitata una mobilitazione di energie fuori del comune. L’impegno nel “lavoro garantito” ci ricorda che l’anima del New Deal di Roosevelt, di cui spesso si parla del tutto a sproposito, furono straordinari progetti collettivi (quali l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la creazione dei grandi parchi, la conservazione e la tutela delle risorse naturali) piegati al fine di creare lavoro in vastissima quantità e per tutte le qualifiche (perfino per gli artisti e gli attori di teatro) attraverso i Job Corps – le “Brigate del lavoro” –, identificando per questa via nuove opportunità di investimento e di dinamismo per l’intero sistema economico.

È un varco simile quello che oggi si apre e da cui si può sollecitare la svolta da un modello di sviluppo malato – basato sulla droga delle “bolle” finanziarie e immobiliari, dell’incremento esponenziale di valore degli asset e dell’indebitamento speculativo privato – a un nuovo modello di sviluppo, orientato a rivoluzione verde, rigenerazione urbana e riqualificazione dei territori, beni culturali, istruzione e Università, benessere umano e civile.