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Bernard Lewis, l’antagonista di Said

Bernard Lewis, l’antagonista di SaidBernard Lewis

Ritratti A 102 anni, è morto lo storico americano ricordato soprattutto per il confronto tagliente con una parte degli orientalisti e degli arabisti, dai quali si differenziava, spesso facendo scuola a sé, nei giudizi rispetto al mondo islamico

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 22 maggio 2018

Oramai prossimo al traguardo dei 102 anni Bernard Lewis è morto negli Stati Uniti, nei quali aveva passato una rilevante parte della sua vita di docente e ricercatore. Noto studioso del Vicino e Medio Oriente, accademico di vaglia a Princeton e alla Cornell University, era il decano degli orientalisti. Nella sua ampia produzione bibliografica, delle tante cose scritte, almeno una trentina di volumi, la collaborazione più importante rimane quella che offri per la redazione della Cambridge History of Islam.

D’altro canto, nessuno gli negava la competenza e l’autorevolezza sui temi per i quali si esercitava. Così come l’invidiabile conoscenza delle lingue, essendo un poliglotta. Nato nel 1916, nel quartiere londinese di Stoke Newington, da una famiglia del ceto medio ebraico inglese, era cresciuto in Inghilterra e si era laureato in storia, vent’anni dopo, alla London School for Oriental Studies, per poi conseguire il dottorato in storia islamica e proseguire, sotto l’autorevole guida di Louis Massignon, a Parigi, negli «studi semitici».

DURANTE LA SECONDA GUERRA mondiale lavorò, come una significativa parte dei giovani intellettuali di estrazione universitaria della sua generazione, per l’intelligence inglese. La cognizione che una parte di essi andava maturando era che il confronto con il nazifascismo, e la competizione con l’Unione Sovietica, avrebbero consegnato un mondo molto diverso da quello in cui erano cresciuti. L’Impero britannico era destinato al tramonto e una nuova politica estera avrebbe dovuto tenere in opportuna considerazione inediti indirizzi di condotta, da sostituire alla radicata matrice coloniale.

LEWIS EBBE modo di viaggiare ripetutamente nei luoghi sui quali aveva indirizzato i suoi studi. Che erano intesi anche come strumenti per indirizzare le scelte delle classi dirigenti europee, e in particolare quelle anglosassoni. Di ciò e di altro ancora nel 2013 ha offerto un resoconto tanto ampio quanto aneddotico con il suo libro Notes on a Century. Reflections of a Middle East Historians, una sorta di breviario personale sul Novecento mediterraneo e mediorientale. Ma la sua figura è ricordata soprattutto per il confronto secco, a tratti tagliente, con una parte degli orientalisti e degli arabisti, dai quali si differenziava, spesso facendo scuola a sé, nei giudizi rispetto al mondo islamico. Da un lato la sua vicinanza con Israele, paese nel quale trascorse una parte della sua vita, dall’altro la severità delle valutazioni che faceva proprie rispetto alle trasformazioni in atto nelle società musulmane, furono ragione di ripetute contrapposizioni con alcuni dei suoi colleghi. In particolare con Edward Said, l’intellettuale palestinese autore nel 1978 di Orientalism, vero e proprio testo di riferimento per gli studi post-coloniali, nel quale si denunciava l’indagine occidentale sull’Oriente come parte di quella visione etnocentrica che era stata alla base dell’esperienza imperiale. L’accusa era quella di concorrere a questo sguardo distorto, alimentando le proprie valutazioni di un pregiudizio occidentalista.

LA RISPOSTA di Lewis era che nessuna cultura può essere valutata dal suo solo interno, richiedendo semmai l’incrocio tra visioni endogene e osservazioni a distanza. La querelle non cessò mai del tutto, segnando la contrapposizione tra due distinti profili culturali, quello di chi si riconosceva nei movimenti nazionali cresciuti a cavallo dei lunghi processi di decolonizzazione e quello di quanti, Lewis tra questi, si interrogavano sul rapporto tra modernità e tradizione nelle società autoctone in un’ottica che considerava il ruolo dei paesi a sviluppo avanzato.

IL TEMA SAREBBE RIESPLOSO negli anni Novanta, dinanzi al tema del «conflitto di civiltà», ovvero alla politicizzazione dell’interpretazione delle differenze culturali nell’arena geopolitica. Quel che resta di Bernard Lewis, oltre alla quantità indescrivibile di osservazioni, note, analisi e considerazioni raccolte nei suoi tanti libri, è l’impronta di un «Quiet British», un intellettuale cresciuto all’ombra della più inesauribile curiosità per il mondo, tuttavia fortemente radicato nella cultura d’origine. Un servente della Corona, in altre parole, nel momento in cui, da buon pessimista della ragione quale sempre fu, coglieva che l’età delle grandi sovranità stava per concludersi una volta per sempre.

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