La manovra ancora non c’è. Arriverà solo oggi. Il Parlamento avrebbe dovuto riceverla cinque giorni fa: non è pervenuto nulla. Anche sul Colle il testo è atteso con impazienza. Nel tardo pomeriggio di ieri il governo sperava di inviarla al primo cittadino in nottata. In compenso la fiducia è già certa o quasi, e il paradosso dice tutto sul modo di intendere i rapporti tra governo e Parlamento di Matteo Renzi.

«Presenteremo la legge in Parlamento domani», annuncia alla fine il premier su Facebook, dopo una giornata di proteste incrociate e fiammeggianti. Poi ribatte alle critiche mosse alla sua abolizione della Tasi: «E’ vero, è la stessa manovra che aveva fatto Berlusconi. Con due differenze: noi non torneremo indietro come lui e non la faremo pagare ai comuni». E difende anche l’innalzamento del tetto del contante, smentendo così le voci che lo volevano pronto a ripensarci dopo le critiche di Cantone, riprese ieri anche dal presidente della commissione Bilancio, il dem Francesco Boccia: «Sul contante e sull’abolizione della tassa anche sulle ville io non sono d’accordo». «Tra Prodi, che aveva fissato il tetto a 5000 euro e Monti, che lo aveva portato a 1000, noi ci collochiamo a metà strada. E’ una misura semplice, che aiuta a sbloccare i consumi. Non aiuta l’evasione, e non la combatte», taglia corto il capo. E comunque, scrive sempre Renzi su Fb, «i castelli, a differenza di quanto si dice con tono scandalizzato, pagheranno (come per abolizione Ici del 2008). Ironia della sorte: furono parzialmente esentati dai governi successivi, anche di centrosinistra, perché residenze storiche, ma le categorie catastali A1, A8, A9 avranno lo stesso trattamento della misura del 2008».

Il premier non dimentica neppure l’attacco dell’M5S sulle 22mila nuove bische, rilanciato da Cuperlo che lo aveva definito «inaccettabile». «Aspettino almeno di leggere la legge, poi vediamo se qualche grillino si accorge di aver detto menzogne», ribatte don Matteo, dimenticando che se la legge non è stata ancora letta è solo perché lui se la è tenuta nel cassetto oltre tempo massimo. In compenso già i senatori renziani Mirabelli e Marcucci avevano assicurato che «non c’è nessuna nuova licenza. Solo la rimessa a gara delle concessioni esaurite e dei centri scommesse che emergeranno dal sommerso». Difficile dire chi abbia ragione fino a che, ignorando la legge, il governo non consegna il testo.

Renzi chiude bacchettando il suo partito per l’«eccessiva timidezza» con cui ha accolto una legge da spellarsi le mani per gli applausi. In realtà più che di timidezza bisognerebbe parlare di una raffica di critiche.
Le due voci della legge che tengono banco sulle prime pagine non sono gli unici bersagli delle critiche interne al Pd e secondo l’ex segretario della Cgil Epifani, non sono neppure il peggio: «Quel che manca più di tutto è un intervento vero per il Mezzogiorno. Il Sud si sta desertificando e non bastano 6-7 miliardi di investimenti». E Tito Boeri, presidente dell’Inps, mette sotto accusa gli interventi previsti sulle pensioni: «Sono selettivi, parziali e creano asimmetrie di trattamento».

Poi c’è il fronte della minoranza propriamente detta, e da lì si profila uno scontro a tutto campo. Nel metodo l’idea della fiducia basta e avanza per garantire uno scontro durissimo. D’Attorre ha già annunciato che non voterà la legge, pronto ad accettare le conseguenze della sua scelta. Il politologo e deputato Carlo Galli ha preparato un documento (già visto dai principali esponenti dell’opposizione interna, da Bersani a Cuperlo) nel quale viene finalmente posta in maniera esplicita la domanda chiave: «Il Pd è ancora un partito di centrosinistra?». «Sto riflettendo sulla mia permanenza nel Pd», aggiunge a pesante ulteriore commento lo stesso Galli.

Alla minoranza si rivolgono anche Sel, Lista Tsipras e Stefano Fassina, che ieri hanno tenuto una conferenza stampa per illustrare le loro durissime critiche alla legge. «E’ concentrata su due questioni, l’abolizione della Tasi e l’innalzamento del contante, che sono il contrario del necessario», insiste Loredana De Petris. «E’ una manovra reaganiana», rincarano Fassina, Marcon e Campanella della Lista Tsipras. La sinistra non si concentra solo sui punti più critici ma ne bolla l’intero impianto come recessivo e tutto interno alla logica dell’austerità. E «se si dice che la manovra viola la Costituzione, non capisco come la minoranza del Pd possa non prenderne atto», conclude Fassina.

Dall’esterno del palazzo i sindacati promettono la mobilitazione del pubblico impiego contro una legge «che fa pagare il risanamento ai lavoratori» e annunciano una manifestazione unitaria a breve. Ce n’è a sufficienza per concludere che il conflitto sulla manovra, nel Paese, in Parlamento e nel partito di Renzi, potrebbe rivelarsi più aspro di quello sulla riforma istituzionale.