Il sospiratissimo vertice del centrodestra si terrà stamattina. Forse in persona, a Roma, forse invece in videocall, circoscritto ai tre leader principali. Silvio Berlusconi dovrebbe formalizzare quello che ad Arcore pudicamente definiscono «il passo di lato» ma neppure questo è certissimo. Quel passo per re Silvio è il più doloroso: ancora esita. Nelle telefonate fra lo stesso Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni che hanno deciso il summit, una parola definitiva in materia ancora non è stata detta. Ma che si tratti del candidatissimo o di altro nome, una proposta, sotto forma di indicazione secca o di rosa, dal vertice dovrebbe uscire. Condizionale d’obbligo perché c’è chi ritiene che per sfoderare una nuova candidatura sia troppo presto, e a 48 ore dall’inizio delle votazione si evince che la percezione del tempo dei politici è diversa da quella del resto del genere umano.

IERI, AD ARCORE, si è riunto il vertice di Forza Italia. Sul tavolo c’era soprattutto l’opzione Draghi, i Letta, entrambi gran partigiani di quella soluzione, si erano prima sentiti al telefono e non per chiacchierare della salute dei congiunti. Ma zio Gianni non è stato in grado di rassicurare il nipote Enrico. Sull’elezione del premier a capo dello Stato Berlusconi continua a non essere convinto, punta i piedi, recalcitra, e come lui la pensa circa metà del partito azzurro. Le pressioni sono massicce e non solo quelle del partito. L’azienda concorda, Fidel Confalonieri consiglia di virare su Mario Draghi. Ma ieri sera il verdetto del Cavaliere pendeva ancora più verso il no. Di certo restano contrari Salvini e il grosso della Lega, convinti che anche se Berlusconi passa la mano va messo in campo un papabile che sia espressione diretta del centrodestra. Nomi come quello della presidente del Senato Elisabetta Casellati, che può essere contrabbandata come candidata istituzionale proprio in virtù della presidenza di palazzo Madama, di Franco Frattini, che andrebbe bene anche ai 5 Stelle, forse, ma è improbabile, dello stesso Gianni Letta. Non Pier Casini, invece, considerato «di sinistra».

SAREBBE, E ANZI tutto lascia pensare che sarà, una dichiarazione di guerra: il segno che la destra vuole insistere sul forzare nella speranza di eleggere un «presidente di parte» pur sapendo che il risultato, in caso di vittoria alla quarta votazione, sarebbe la grande esplosione, la fine del governo e della legislatura. Se invece, come spera Enrico Letta, il vertice decidesse di non fare nomi e di chiedere invece, come Salvini ha già fatto più volte, di sedersi tutti intorno a un tavolo, senza più l’ingombro del candidato Silvio e senza averlo sostituito con altri macigni, il segnale sarebbe opposto. Il colloquio tra il leader della Lega e il segretario del Pd, previsto per oggi stesso, potrebbe in quel caso avviare uno sblocco della situazione, comunque di non facile realizzazione. I segnali della vigilia, però, non autorizzano grande ottimismo. Gli umori, a destra, rimangono prevalentemente propensi a sfidare sia i numeri che il rischio di crisi ed elezioni anticipate puntando su un proprio candidato. Certo meno provocatorio e meno inaccettabile per la controparte del leader che ha diviso l’Italia in fazioni opposte più di chiunque altro nella storia della Repubblica. Ma pur sempre con la targa «centrodestra» ben in vista.

A QUEL PUNTO il vertice dei tre segretari del centrosinistra, ciascuno scortato dai due capigruppo, in programma per domani mattina non potrà probabilmente fare altro che replicare bocciando «per il metodo» le candidature avanzate dagli avversari. Forse anche mettendo sul tavolo ipotesi alternative, nella speranza di arrivare poi a un summit di tutti nel quale il falò delle figurine squadernate dagli uni e dagli altri sarebbe inevitabile. Ma anche con la paura di un esito diverso: tre votazioni a vuoto con le candidature di bandiera, e per la sinistra sarà probabilmente il fondatore della comunità di Sant’Egidio ed ex ministro Andrea Riccardi, poi, dalla quarta votazione, uno scontro frontale dagli esiti tanto imprevedibili quanto potenzialmente esiziali.

Dopo il fragore di una battaglia prolungata per due o tre votazioni il Pd ritiene che tutti prenderanno atto della realtà e si disporranno intorno a un tavolo dove campeggerà il nome di Mario Draghi. Ma si sa: non si può mai dire come va a finire una guerra.