Stavolta l’ex Cavaliere ha fatto imbufalire tutti: non solo gli alleati ma il suo stesso stato maggiore. L’idea di lanciare come un dado sul tavolo il generale Leonardo Galitelli Berlusconi non l’aveva anticipata a nessuno, pare neppure al diretto interessato. Non che il suo nome fosse del tutto ignoto. Se n’era in effetti parlato, ma solo come papabile ministro degli Interni. Non è solo il nome dell’alto ufficiale, che in fondo tutti considerano solo una specie di trovata, a tenere alto il nervosismo. Molto più a fondo morde l’insistenza sui 20 ministri di cui solo 8 politici. A Salvini e Giorgia Meloni non va giù perché non vogliono permettere all’azzurro di passare per capo indiscusso della coalizione. Ma ai forzisti l’idea piace anche di meno perché, a prenderla sul serio, bisognerebbe concludere che di ministri azzurri non ce ne saranno o quasi.

Così già al mattino il leghista su Galitelli ipotetico premier frena: «Questa non l’avevo mai sentita a una riunione». Sul governo a 20 Salvini è altrettanto drastico: «Ma se ancora non abbiamo sottoscritto il programma, figuriamoci il numero dei ministri». La diplomazia interna alla destra si dà da fare e a metà giornata il capogruppo Brunetta stempera: «Quel nome è stato fatto come esempio di civil servant di straordinaria integrità». Insomma un nome sparato solo per indicare un profilo, e poco male se così facendo il graduato rischia di vedersi bruciare anche la poltrona del Viminale.

Solo Roberto Maroni plaude alla sparata del suo antico premier. Si congratula per la scelta di Galitelli: «Lo conosco bene, è diventato generale proprio mentre io ero ministro degli Interni nel 2009». Si compiace anche per la mossa spiazzante: «Berlusconi ha questa capacità di tirare fuori cose simili dal cilindro. Si vede che è tornato in campagna elettorale».

E’ probabile che il governatore lombardo abbia ragione. Berlusconi è troppo navigato per sparare un simile petardo a caso. Certo non s’illudeva di incoronare davvero come candidato il generale. In compenso ci tiene a concentrare su di sé i riflettori, consapevole che sapersi imporre agli occhi del pubblico votante come protagonista della campagna elettorale significa attirare voti sul suo partito e dunque diventare davvero quel leader assoluto che era, che oggi finge di essere ma che spera di tornare superando la Lega alla conta finale. Ma allo stesso tempo quello dell’ex premier è un classico ballon d’essai. Se Strasburgo non sentenzierà in tempo per permettergli di occupare palazzo Chigi deve essere chiaro che, se a scegliere in virtù del vantaggio nelle urne sarà Fi, l’inquilino dovrà essere un dignitoso prestanome. E comunque dovrà rispondere ai criteri che, secondo i focus group messi al lavoro, corrispondono ai desideri degli italiani: un uomo d’ordine.

Per Berlusconi, si sa, la campagna elettorale è su due fronti. Quando fa promesse a valanga, ultima il veterinario gratis, compete con i rivali conclamati. Ma quando si scaglia contro lo ius soli e i migranti lo fa per saccheggiare i forzieri di voti leghisti. Ma la partita a scacchi tra Arcore e Pontida non si gioca solo sui palchi o in tv. La mano davvero difficile sarà quella delle candidature, e Salvini ha messo ieri le mani avanti: chi ha sostenuto i governi del Pd potrà candidarsi nelle liste azzurre, ma non nei collegi comuni. E sullo sfondo resta la faccenduola del dopo elezioni ove nessuno le vincesse. «Chiederò un impegno concreto», ripete il leghista. Il notaio? Probabilmente no. Se alleati si fidano così poco l’uno dell’altro difficile chiedere al Paese di fidarsi e questo Salvini lo sa.