«Non ho intenzione di occuparmi di musica come rassicurante mercanzia emotiva per l’ascoltatore o come rassicurante bagaglio procedurale per il compositore. Mi piace invece leggere o ascoltare la musica che s’interroga, ci interroga e ci invita a una costruttiva revisione o, addirittura, a una sospensione del nostro rapporto col passato e a una sua riscoperta sulle tracce di percorsi futuri»: così Luciano Berio nella prima delle sue Lezioni americane, per Harvard, raccolte da Talia Pecker Berio nel volume dal titolo calviniano Un ricordo al futuro (Einaudi, 2006).

Quasi una dichiarazione di poetica. Vi si respira tutto il clima intellettuale del secondo Novecento, in cui Berio, insieme a Boulez, Stockhausen, Nono sembrarono rifondare un’idea della musica, di che cosa sia la musica. Oggi da molte parti ci si vanta di non seguirli, di distaccarsi da quanto sembra essere un proclama dogmatico e autoritario di cosa si debba e non si debba fare con la musica. Il dogmatismo, e forse perfino la prepotenza, indubbiamente c’era, e c’è nei non troppo sparuti epigoni, nell’accademia che si ostinano a perpetuare; ma non certo in Berio e, per quanto possa parere strano, nemmeno in Boulez, in Stockhausen, e, nonostante l’apoditticità di molte sue affermazioni, nemmeno in Nono.

Non si comprende, infatti, la loro opera se non la si inserisce nel clima avventuroso di quegli anni, nella voglia di sperimentare tutto ciò che non si era fatto fino allora, nel piacere, quasi voluttuoso, di ripensare da capo il passato e di prevedere un futuro la cui diversità ne assorbisse però il pensiero, ne reinventasse soprattutto la spregiudicatezza. Sono compagni di strada di Beckett, di Calvino, di Eco, di Queneau, di Char, di Sanguineti, di Borges; di Burri, di Fontana, di Fautrier, di Pollock. E non perdono mai di vista Joyce, Stravinskij, Debussy, Falla, Schönberg, Webern, la musica popolare dei quattro angoli del mondo, la pittura e la scultura dell’Africa, dell’Australia, i formalisti russi, l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss. In altre parole, contrariamente a ciò di cui li si accusa, erano proprio le certezze, la sicurezza di un dogma, che sentivano estranee, essendo capaci invece di mettersi in discussione a ogni nuova opera. Berio, forse, più di tutti. Anche perché non cadde mai nella trappola di assimilare la musica a un linguaggio. Il linguaggio entra certo in rapporto con la musica, se ne fa spesso oggetto, ma diventa allora un altro tipo di comunicazione. Una pagina come Sequena III, per voce sola, non dà apparentemente nessun credito al significato delle parole, anche perché della voce coglie non solo le sillabe significanti, ma i sospiri, i respiri, gli ansiti, i mugugni, il balbettio senza significato. Sembrerebbe anticipare il rap, ma evita, del rap, l’ossessione di una comunicazione legata al significato delle parole.

E sta qui la novità, che se la musica è la costruzione del suono, tutto allora può farsi musica, anche il «rumore» naturale, l’eccitazione dello strumento elettronico, meglio se trasforma i suoni dal vivo, e perfino il silenzio. Berio si butta vorace su tutto ciò che può essere musica o, meglio, può diventarlo. Anche il teatro, come puro avvenimento musicale: è la musica stessa a fasi teatro. Ma allora perché non rivisitare il passato? Sia quello colto, sia quello della tradizione orale. Ristrumenta Schubert, Falla, Monteverdi, Boccherini, riscrive le canzoni popolari. Se la musica non è linguaggio è però una comunicazione che dà significato al tempo, alla durata dell’ascolto. In questo, tocca le radici dell’esistere. Il tempo di una canzone non è il tempo in cui non c’è la canzone. Luciano Berio ci lasciava vent’anni fa, ma sentiamo come ci sappia ancora indicare un modo di stare al mondo, di interpretarlo, di salvarci dallo scomparire, dando senso a ciò che vediamo, udiamo, sentiamo e, soprattutto, pensiamo, per offrirlo agli altri, questo senso, e mostrare per quale via raggiungerlo.