Catalogare una collezione di opere d’arte non è un’operazione semplice; si devono fronteggiare innumerevoli problemi, di natura disparata, e molto spesso il risultato raggiunto lascia scorgere i compromessi cui si è dovuto cedere. A sfogliare il sontuoso catalogo della raccolta di opere di villa I Tatti, invece, è immediatamente chiaro che i problemi posti dalla catalogazione sono stati risolti nel più felice dei modi: The Bernard and Mary Berenson Collection of European Paintings at I Tatti, a cura di Carl Brandon Strehlke e Machtelt Brüggen Israëls, Officina Libraria, pp. 824, euro 100,00). Una collezione non comune, quella dei Tatti, che raccoglie le opere scelte da Bernard Berenson (1865-1959) tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Figura gigantesca, la sua, alla cui personalità anche a volerla tratteggiare sinteticamente si rischia di far torto. Storico dell’arte e conoscitore attorno al quale si sviluppò un vero e proprio culto (e basti ricordare l’influenza che esercitò sul giovane Roberto Longhi), dopo aver studiato a Harvard, dagli Stati Uniti, dove la famiglia si era stabilita dalla Lituania nel 1875, il giovane Berenson iniziò a viaggiare per l’Europa, grazie anche ai fondi che gli venivano, tra gli altri, da Isabella Stewart Gardner, la ricca e intraprendente collezionista di Boston. Dopo aver conosciuto Mary Costelloe (1864-1944), che sarebbe divenuta, alla fine dell’anno 1900, sua moglie, egli iniziò a collezionare insieme a lei opere d’arte per arredare la nuova casa dove sarebbero andati ad abitare, sulle colline attorno a Firenze: villa I Tatti. Che le opere scelte avessero, in primis, la funzione di abbellire le pareti della dimora, emerge da più di una delle molte lettere dei Berenson, ma è anche chiaro che i due coniugi avevano l’obiettivo di allestire una vera e propria collezione, cresciuta assieme agli interessi che nutrivano per il Rinascimento italiano, e i rapporti con i mercanti e i collezionisti di qua e di là dall’Atlantico agevolavano questi scopi. Un vero e proprio picco si registra intorno ai primi decenni del Novecento: sono gli anni in cui la coppia riuscì ad assicurarsi, ad esempio, la Madonna col Bambino di Giovanni Bellini, comprata a Venezia nel 1909.
I saggi iniziali dei due curatori, Strehlke e Israëls, introducono il lettore nell’universo berensoniano, orientandolo tra le molteplici attività e i contatti della coppia, sempre tenendo al centro il costruirsi della collezione e i suoi destini. Di decennio in decennio si seguono le vicende che hanno visti coinvolti i Berenson e i loro amici e conoscenti, i mercanti, gli ammiratori, in un vero e proprio ritratto corale, ben orchestrato, dove sulla scena principale, però, stanno fisse le opere d’arte. E se il saggio di Strehlke ha al centro la collezione nel suo costruirsi, Israëls dedica bellissime pagine alla predilezione dei Berenson per la pittura senese del Quattrocento, vero e proprio coup de foudre che scoccò sin dagli anni novanta dell’Ottocento, quando i due si spingevano a visitare Siena e dintorni.
Un saggio specifico, a firma Caroline Elam, si incentra sul rapporto, al principio di grande vicinanza e poi naufragato amaramente, tra Berenson e Roger Fry, il critico inglese del circolo di Bloomsbury. Inizialmente legati anche alle vicende dei primi anni del «Burlington Magazine», di cui Fry fu tra i fondatori e sulle cui pagine Berenson sperava di riuscire ad avere più spazio, le strade dei due si separano sempre più, complici anche i mutati interessi di Fry e il suo rivolgersi con entusiasmo all’arte contemporanea. Ma anche in questo caso andrà rilevata la grande influenza che Berenson esercitò su Fry, riuscendo a fornirgli acuti strumenti per l’analisi dei fatti figurativi. Si è condotti anche nella complessa temperie culturale dell’inizio del secolo scorso, in quel momento fondativo in cui la storia dell’arte si stava dotando di un metodo il più scientifico possibile, a opera, principalmente, di Giovanni Morelli. Il metodo del ‘conoscitore’, fatto di un’analisi attenta dei dettagli per giungere a identificare l’autore di un’opera, trovò in Berenson il più eletto punto di riferimento, uno studioso in grado di arricchire quello stesso metodo attraverso l’approccio psicologico verso lo stile specifico secondo le indicazioni ricevute da William James nelle lezioni seguite a Harvard.
Le fotografie, questi oggetti insostituibili per la pratica della connoisseurship verso i quali Berenson aveva un attaccamento quasi smodato, sono al centro di un contributo di Giovanni Pagliarulo, che traccia i rapporti tra la coppia e i fotografi chiamati a realizzare vere e proprie campagne, tanto sulle opere quanto sugli ambienti della villa: da Harry Burton (noto ai più per aver realizzato le fotografie che documentano gli scavi della tomba di Tutankhamon) a Vittorio Jacquier sino a Rodolfo Reali.
Per la schedatura delle opere della collezione i due curatori hanno messo assieme un consistente team di specialisti – in tutto, oltre a Strehlke e Israëls, sono trentotto gli autori delle schede, che hanno rivolto la loro attenzione a nuclei di dipinti coerenti tra di loro (i quadri lombardi, i senesi, e così via) o a singole opere. Il risultato costituisce uno dei grandi pregi del volume, e cioè la possibilità di riuscire a seguire le vicende dei Berenson (perché, è bene ricordarlo, Mary ebbe un ruolo attivo nel mettere insieme la collezione) e delle loro opere a trecentosessanta gradi. I dati che è possibile incrociare tra i saggi e le schede, infatti, sono innumerevoli e contribuiscono a restituire una dimensione stratificata, completa, tanto degli interessi che hanno mosso verso l’acquisto delle opere quanto delle opere stesse. Di queste, in ogni scheda si dà conto della provenienza e dei passaggi collezionistici, dello stato di conservazione e spesso, per i pannelli provenienti da insiemi più o meno articolati, si propongono delle ricostruzioni che diano conto del possibile assetto originario. In molti casi, poi, alle fotografie che illustrano ogni opera, appositamente realizzate per questo libro, si è scelto di affiancare fotografie storiche provenienti dalla fototeca di Berenson e, spesso, di affiancarvi anche le radiografie dei dipinti realizzate in occasione dei restauri o specificamente in vista della catalogazione. Insieme alle opere, con una scelta meritoria, una sezione è dedicata al catalogo dei falsi e delle contraffazioni: introdotta da un saggio di Gianni Mazzoni, essa traccia il percorso dell’incontro-scontro tra i Berenson e il falsario senese Icilio Federico Joni.
Ma si è scelto di non concentrarsi solo sulle opere antiche: trovano spazio nel catalogo, infatti, anche le numerose opere dell’Ottocento e del Novecento che nel corso degli anni si sono accumulate ai Tatti: Henri Matisse, Pablo Picasso, Renato Guttuso, per citare solo alcuni esempi tra i più noti. Ad esempio Claudio Pizzorusso ha riservato uno specifico saggio all’artista francese René Piot, incaricato nel 1909 di decorare ad affresco le lunette della biblioteca con scene tratte dalle Georgiche di Virgilio: il risultato però deluse i Berenson, che licenziarono l’artista ben prima che concludesse il lavoro; restano, puntualmente schedati nel volume, i progetti e i disegni.
In una corposa appendice sono anche state incluse delle brevi segnalazioni su 101 opere che sono transitate tra le mani dei Berenson, per poi magari approdare in altre collezioni private o nei musei (e basti citare il caso della tavola raffigurante la Madonna col Bambino di Ambrogio Lorenzetti donata agli Uffizi nel 1959, o ancora le due tavole di Sodoma e Lorenzo Costa acquistate da John G. Johnson, collezionista di Philadelphia, nel 1908); in questo modo si restituisce anche un’idea di come la collezione si sia evoluta nel tempo, a seconda delle scelte e dei gusti degli inquilini dei Tatti.
Oggi villa I Tatti ospita il centro per gli studi sul Rinascimento italiano della Harvard University, cui Berenson lasciò per testamento tutta la proprietà (incluse la biblioteca, la fototeca e la collezione): mantenere lì la collezione, e non cederla, ad esempio (come venne proposto a Berenson stesso) alla National Gallery di Washington, ha voluto dire mantenere vivo quel dialogo tra le opere e i luoghi così come era stato pensato dai coniugi Berenson. Anche questo, un segno dello sconfinato amore che Bernard e Mary hanno nutrito, lungo tutta la loro vita, per l’arte italiana.