«Il Vietnam eh?» esclama un signore greco spostando con i piedi i calcinacci per terra. Un suo conoscente che si aggira nei dintorni risponde: «Non ho mai visto tanta ferraglia in vita mia. Vedo se riesco a trovare una griglia che va bene per il mio camino». Poco più in là, un gruppo di rom sta caricando alcuni ferri su un pick-up.

IN LONTANANZA, una gru raccoglie le macerie del più grande campo profughi d’Europa, Moria, nell’isola di Lesbo, distrutto da un incendio nella notte dell’8 settembre. A tre settimane dal fuoco che ha fatto fuggire per le strade 13mila persone, chi sperava di recuperare qualche suo avere è già stato qui più volte.
Ormai, tra la stoffa delle tende bruciate e gli ulivi anneriti, degli abitanti non c’è più traccia. Solo tante bottiglie di plastica, scarpe e ciabatte spaiate, molte piccolissime, qualche oggetto personale. Sulla prima pagina di un quaderno abbandonato per terra c’è scritto: «My name is Ahmed, I go to school every day, I live in Greece». Dal campo bruciato di Moria, otto chilometri a sud-est, si scorge Kara Tepe: un’area da poligono dell’esercito che in tre giorni è diventato un accampamento di fronte al mare per gli sfollati di Moria, confinati in condizioni igieniche precarie.

«NON ABBIAMO L’ACQUA corrente, le tende non hanno un pavimento, i bagni chimici sono pochissimi e si intasano dopo mezza giornata» racconta per messaggio Mahli, un abitante del campo richiedente asilo. Yiannis Bournous, deputato di Syriza del Parlamento greco, ha avuto accesso al campo per un’ispezione. «Non c’è nessuna misura efficace per contenere il covid19. Ho visto un bambino giocare con uno suo coetaneo in quarantena toccandosi con le mani: a dividerli c’era solo una ringhiera».

Attualmente, sono circa 250 gli ospiti di Kara Tepe risultati positivi al virus, 11 solo ieri. Prima dell’incendio nel campo di Moria ne erano stati identificati 35. Ad essere sottoposti a tampone sono stati circa 7mila ospiti dei 9mila registratisi nel nuovo campo: i minori sotto ai dieci anni infatti non vengono controllati; il che vuol dire che nel nuovo campo vivono 2mila bambini. Le condizioni igieniche non sono però l’unica fonte di preoccupazione: «L’accampamento è esposto al vento che soffia dal mare, si trova a valle di una collinetta e le tende non hanno un pavimento: nessuno di noi vuole pensare a cosa succederà con l’arrivo della prima pioggia» spiega Bournos.

Fino ad oggi in 9mila circa si sono registrati a Kara Tepe: in base al numero degli ospiti registrati a Moria prima dell’incendio, mancherebbero all’appello circa 2mila migranti. Come riportato dal quotidiano di Lesbo To Nisi, il ministro per l’Immigrazione Notis Mitarakis ha ammesso che circa 2mila migranti sono fuggiti dal campo di Moria. La coalizione di partiti di centrosinistra «Movimento per il Cambiamento» ha denunciato: «Nessuno sa se ne sono andati via di recente o anni fa e dove siano oggi. Questo vuol dire che centinaia di migliaia di euro sono stati spesi per l’alimentazione quotidiana di persone inesistenti».

«ALCUNI DEI MIEI CLIENTI dopo essersi registrati a Kara Tepe hanno preferito tornare a dormire nel campo distrutto, perché le condizioni del nuovo sono terribili» racconta Asterios Kanavos, avvocato del gruppo Refugees Support Aegean, che offre consulenza legale ai richiedenti asilo. Nei giorni successivi all’incendio, quando i migranti avevano organizzato manifestazioni pacifiche per opporsi a un nuovo campo scandendo «No more Moria», le autorità greche avevano diffuso dei volantini tra i migranti per convincerli a registrarsi nel nuovo campo. Il foglio recitava: «Fidati solo del governo greco. Chi ti dice il contrario ti sta usando» promettendo che, una volta registrati, i migranti avrebbero potuto riprendere i colloqui per l’asilo. Le interviste, tuttavia, per ora sono rimandate a data da destinarsi.

DI DOMENICA L’ENTRATA al campo di Kara Tepe è insolitamente vuota: ai suoi ospiti è stato detto che non possono uscire «perché è domenica». Nel resto dei giorni possono farlo dalle otto di mattina alle otto di sera, ricevendo un cartellino con un numero che devono restituire al ritorno. In molti, dopo avere aspettato anche ore in fila prima di potere uscire, vanno al Lidl lì accanto per comprare acqua e cibo. Una signora afgana, avvolta in un foulard bianco e rosso, parla attraverso la ringhiera con un’interprete. La cosa che più la fa stare male, dice, è che da quando è bruciata Moria non ha più fatto la doccia ai suoi figli. Lì vicino, Ali, un ragazzo somalo di 25 anni, dall’altra parte della ringhiera parla con dei suoi amici: gli passa quello che ha comprato per loro. Ali è stato più fortunato di altri, dopo l’incendio ha raggiunto dei suoi conoscenti ospiti di una struttura di accoglienza in città, si è registrato lì e così può circolare liberamente anche di domenica.

«LE COSE NEL CAMPO non sono buone» racconta. «La giornata è un’attesa continua: attesa per avere il permesso di uscire, attesa fuori dal supermercato, attesa per ottenere il colloquio per l’asilo. La gente esce fuori di testa». Ufficialmente, il governo greco ha dichiarato che tutti i migranti detenuti sull’isola di Lesbo saranno trasferiti entro la Pasqua del prossimo anno.

Il 28 settembre 700 ospiti del campo in possesso del diritto d’asilo sono stati imbarcati e trasferiti dall’isola all’entroterra greco. Tuttavia, secondo Vasilikì Andreadellaki, presidente della ong «Iliaktida» che in collaborazione con l’Unhcr si occupa dei profughi bambini, «il campo è fatto per restare a lungo. Sono stati pubblicati i documenti con la somma di soldi che il governo greco è disposto a pagare per l’affitto del terreno fino al 2025, mentre il comune di Mitilene ha presentato la sua proposta per un campo alternativo».

Nei giorni successivi all’incendio sulle mura del campo abbandonato di Moria, accanto alla scritta «Welcome to Europe» ne è apparsa un’altra: «Human rights graveyard» recita. «Benvenuti in Europa, cimitero dei diritti umani».