Benfica e Siviglia battono Gennaro ’a carogna mille a zero. Lo abbiamo visto in tanti, dallo schermo della tv. Giovedì sera, allo Juventus Stadium di Torino, sugli spalti c’era soltanto tifo, e le lacrime dei bambini portoghesi (tanti, come quelli spagnoli) scendevano per la sconfitta; in campo, il portiere del Siviglia Beto aiutava il suo avversario Garay a terra per crampi e nei falli non c’era mai nulla di veramente cattivo.

Ma lo hanno visto soprattutto i cittadini torinesi, che fin da mercoledì mattina sono stati involontari naviganti in mezzo a un oceano di sciarpe, magliette, bandiere, cappelli, parrucche, trombette, canti. Un oceano color rosso (il colore della divisa di entrambe le squadre) le cui onde scorrevano sotto i portici austeri di via Po e piazza Vittorio; si fermavano ai tavolini dei bar, davanti a una bancarella di souvenir; si placavano al momento di consultare il menu di un ristorante. Dentro quella finale di Europa League c’era molta Torino. Sul campo dello Juventus Stadium, il primo maggio, il Benfica aveva eliminato, con un pareggio, i bianconeri. Con il Benfica il Grande Toro aveva giocato la sua ultima partita, il 3 maggio di 65 anni fa, a Lisbona.

Il giorno dopo, l’aereo che riportava a casa i granata si schiantò sul colle di Superga. Sono storia recentissima il gemellaggio tra le due squadre e l’omaggio del presidente Vieira alla lapide in ricordo della tragedia. È cronaca di mercoledì e giovedì la calca della torcida dentro il Granata Store di piazza Castello per comprare mirabilia della squadra sorella. La capitale sabauda, solitamente poco propensa all’espansività, timorosa di eventi che possano turbare l’ordine e la calma, ha finito per lasciarsi andare a un’invasione tanto assordante quanto pacifica. Passa un gruppo di ragazzini italiani, gridano “Siviglia, Siviglia!”. Non c’è bisogno di Sherlock Holmes per dedurre che sono di fede juventina. I supporter del Benfica rispondono agitando le mani in segno di saluto.

Una signora avvolta nella bandiera del club spagnolo cammina di buon passo, naso in aria. Finisce dritta addosso a un corpulento lusitano che indossa una parrucca color del fuoco. Scoppiano a ridere e poi si abbracciano. Chiediamo a due giovani tifosi iberici il permesso di fotografarli. I due si mettono in posa, un tifoso rivale si ferma per non entrare nell’inquadratura. E loro lo invitano a unirsi. L’immagine fissa tre facce allegre e due sciarpe avversarie. Scorre tantissima birra, il fumo che si alza è quello azzurro delle sigarette, le note dolenti arrivano soltanto dagli stonati che si uniscono ai cori di incitamento.

Poi, verso le sei e mezzo del pomeriggio di giovedì, ecco di nuovo il silenzio. Improvviso, quasi surreale. L’accento torinese torna a risuonare nelle voci della gente per strada. Il cameriere di un bar commenta «Certo facevano un bel casino, ma sono proprio simpatici». Se uno di quei trentamila, magari per via di parenti italiani, si chiamava Gennaro, di certo carogna non era.