Per il suo nuovo film, dopo l’irrequietezza borghese del magnifico Elle (2016), Paul Verhoeven ha scelto come punto di partenza il libro della storica americana Judith C.Brown, Immodest Acts, in cui si racconta la storia vera di una monaca benedettina vissuta nell’Italia medievale e accusata di atti «bestiali» (cioè omosessuali): suor Benedetta Carlini. A restituire i fatti che la incriminarono c’è l’inchiesta condotta dall’inviato del nunzio di Firenze all’interno del monastero di Pescia, in Toscana, nel 1623, che nella messinscena del regista olandese da vita a una progressione tra il sublime e il grottesco di ogni genere di eccesso. Una cifra questa in cui Verhoeven è maestro, e sa perciò controllare in modo assoluto sequenze che nelle mani di altri rischierebbero il ridicolo. La sua narrazione invece lascia esplodere un intreccio di blasfemia e di piacere, nel mezzo di una pestilenza, che muovendosi tra l’erotico e l’horror, il grande film drammatico e quello di genere medievale anni Settanta, mette al centro il personaggio della monaca – a cui dà vita con complice frenesia Viriginie Efira.

MA QUAL è il sacrilegio commesso da Benedetta? Predestinata alla santità sin da bambina – il «miracolo» può essere anche una cacca di piccione che cade dal cielo nell’occhio di un bravo assai malintenzionato – quando cresce ha una sua relazione personalissima con Gesù, il suo sposo, che le appare in scene da fantasie parrocchiali di martirio e attrazione sessuale (confine sottilissimo lo sappiamo). È una monaca modello, Benedetta, fervente oltre misura, e sempre sull’orlo di un qualche miracolo, ma l’arrivo di una ragazza perduta come le pecorelle di Gesù fa scattare qualcosa di ignoto: passione, desiderio, piacere, potere?

La redazione consiglia:
Dentro «Elle», il mistero oscuro del desiderioVerhoeven resta fedele alla sfrontatezza erotica dei suoi primi film, come Spetters (1980), sfrontatezza che per lui è una cosa molto seria e di cui non si pente mai. Così come lo è per il personaggio di Benedetta, una donna che non riesce a concedere a nessuno, nemmeno a chi le è più intimamente vicino, che ci sia una contraddizione tra santità e godimento. E tutto lo sforzo del film, più che nel far capire il personaggio di Benedetta o a svelarne le intenzioni, tende a mettere a nudo, per così dire, questa relazione prendendola totalmente sul serio.
È con queste armi che Verhoeven dà l’assalto ad ogni moralismo, prendendosi gioco della chiesa, e ripagandone l’ipocrisia con stupefacente efficacia. Gli antagonisti di Benedetta sono la madre superiora (Charlotte Rampling) e il nunzio di Firenze, entrambi hanno in comune il fatto di non credere fino in fondo al proprio stesso gioco. Che è, ovviamente, lo spettacolo. Cos’è la chiesa, infatti, se non un grande, immenso, gigantesco spettacolo? Non è la chiesa stessa a mostrare in continuazione corpi nudi, dilaniati e al tempo stesso gaudenti? La chiesa è un monumentale spettacolo sadomaso che dura da millenni in termini di potere, patriarcato, finti peccati, soldi – perché anche chiudere le figlie in convento ha un prezzo. Ma è uno spettacolo a cui appunto i suoi stessi registi non credono fino in fondo.

 

Benedetta al contrario è assolutamente persuasa che in quello spettacolo bisogna credere senza alcun dubbio. Che in esso c’è la salvezza. E che è peccatore al contrario chi cerca di interromperne la progressione verso l’estremo sempre più eccessivo. Una convinzione che è la stessa del cinema di Verhoeven: tutto deve essere visto, mostrato, esibito, e se si è fatto vedere troppo, l’unica cura è mostrare ancora di più, far ardere il fuoco eterno mentre intorno dilaga la peste.

CON BENEDETTA pensiamo spesso a un altro film del periodo hollywoodiano di Verhoeven, geniale eppure male accolto dal pubblico e dalla critica: Showgirl. In entrambi, lo stesso problema centrale: come fare un film sulla fede, quando si è un cineasta che non intrattiene nessun rapporto cinematografico con l’invisibile? In tutto il film Verhoeven con molta ironia accumula le prove della simulazione di Benedetta. Ogni volta che appare una stigmata o una piaga, c’è un pezzo di vetro o un coccio. La novizia è un’anima perduta, «selvatica» e sensuale a cui deve resistere. La vergine può diventare un pene. Eppure non è un po’ la stessa cosa la sequela infinita che ci tramandano miracoli, martiri, sante sacrificate nell’ascesi, corpi martoriati, santi redenti? Ogni immagine è il suo contrario, peccato e redenzione, salvezza e inferno. Una bugia, una recita come quella di angoletti e barbe finte che le novizie fanno al convento per dire che non si non si riesce mai a sapere nulla. Si può solo credere.