«Voglio vivere in un mondo che sia il contrario di quello che ho abitato fino a oggi : un mondo dove tutto è delegato all’immagine e non alla memoria. Quel che m’interessa è quel che non si vede : lasciare il noto per l’ignoto, che è poi quanto succede quando si nasce e si muore». Modella tra le più in vista – e più in Vogue – negli anni 60-70, insieme a Veruschka, Twiggy, Donyale Luna, Lauren Hutton, Benedetta Barzini ha sempre usato più la testa che le gambe e ben presto, fuori del circo delle passerelle, le sue rivolte son diventate il suo abito più scintillante: riflessioni e repulsioni che percorrono da anni fiumi d’interviste, in Italia e in Usa, diventate ora la sua diga d’autodifesa e insieme la ‘filosofia’ del bel documentario La scomparsa di mia madre girato dal figlio minore, Beniamino Barrese. Paradossalmente, un film sulla volontà di sparire che non fa che farla riapparire – ma parlante e su grande schermo –, essendo uno dei grandi successi dell’anno. Premiato a Annecy Cinéma Italien, ora nominato agli Oscar europei, uscito in Italia in ottobre, dopo le anteprime al Biografilm di Bologna, al Festival e alla Cineteca di Milano e al Museo del Cinema di Torino, in uscita il 6 dicembre negli Stati uniti, sta facendo il giro del mondo : una settantina di festival, dal Sundance (dove ha debuttato in gennaio) al Cairo, da Copenhagen a Singapore, da Teheran a Rio de Janeiro, da Helsinky a Los Angeles (il 19 novembre), all’importante Festival del documentario a Montreal, a Tiblisi («che meraviglia i sottotitoli georgiani, quei ricami di scrittura », si slancia la Barzini, fin dall’infanzia di spiccato talento artistico). Dopo l’apertura del Festival di Villerupt, nell’incontro a Parigi nel salottino dell’Hôtel St. Germain (con manifesto gigante di Dalla Russia con amore), a due passi dall’Institut Culturel Italien dove la sera prima hanno presentato il film in dialogo con il direttore di Annecy, Francesco Ciai Via, madre e figlio continuano, dal vivo, il loro ‘gioco’ cinematografico : bacetti affettuosi, lui, calzoni a quadri, lei, con contrappunto della ciminiera elettronica, inestinguibile (« il mio vero compagno di vita è stato il fumo », confessava in una recente intervista, tra le migliori, su Vanity Fair : « La sigaretta non m’abbandona da 60 anni, non ho mai smesso un giorno. Ho persino partorito in casa per poter continuare a fumare »). Lei, la sua « faccia da totem, le rughe, i denti grandi, i capelli come un nido abbandonato » (sempre su Vanity Fair), ha ora 76 anni. Negli anni 60, lei, rampolla di dinastie ingombranti (padre e nonno Barzini star della stampa, madre già sposa in prime nozze di Carlo Feltrinelli), modella sul Vogue di Diana Vreeland, sublimata nelle foto di Irving Penn e di Richard Avedon, veniva ribattezzata oltre Atlantico «exotic mediterranean», «one of the 100 Great Beauties of the World » (Harper’s Bazaar, 1966), « bella come una scultura di Giacometti » (Gerald Malanga, della Factory di Andy Warhol, ‘giro’ di cui allora faceva parte, come di quello dei Kennedy e di Salvador Dalì).

Il film è un contropiede, cara Benedetta: proclama la sua volontà di cancellarsi ma la rimbalza in ogni angolo del pianeta. Una volta divenuta immagine, per sempre in trappola ?

No, non è così. Anche da giovane non mi sono mai invaghita della fama. Erano i Fab Sixties : New York ‘Big Apple’, Londra ‘in the Wind’… Ma la passerella era il mio lavoro, solo questo: ero guardata, fotografata, ammirata. Ma da lì io osservavo. Ho osservato e scandagliato NY fin da quando i miei mi ci han mandato a studiare, dai 7 ai 13 anni. Non mi sono mai fatta coinvolgere, mai avvolgere nella fatuità dell’apparenza, della gloria effimera d’un clic.

Immune dall’ingranaggio ?

È andata così. Non sono mai entrata nei meccanismi del mercato (mercificazione del corpo, nel caso delle modelle), non mi sono mai fatta incantare dalle loro seduzioni più facili. Non ho mai sposato un ricco produttore: per poi, magari, divorziare e goderne i benefici. Da giovane immagazzinavo: esperienze. Sono stata modella, anche arrampicatrice, se si vuole. Ma non mi sono mai fatta intrappolare.

Risultato?

Docente. Proprio sui sottintesi e gli imperativi della moda. È stato uno dei miei impegni più belli. Per 20 anni, dal 1996 al 2016, ho insegnato ‘Significato degli abiti nel tempo’ all’Università d’Urbino, al Politecnico di Milano e al NAB (Nuova Accademia di Belle Arti a Milano). Risponda a una domanda, che rivolgevo ogni volta ai miei ragazzi : Perché l’uomo ha un abito e la donna mille ? Ho decodificato l’estetica del vestire maschile e femminile per far riflettere su ruolo e funzioni: ho sempre voluto combattere l’idea che le donne rappresentano il piacere e gli uomini la ragione. Gli indumenti sono lo specchio di questa discriminazione. L’abito maschile suggerisce rispettabilità e credibilità: se le donne aspirano allo stesso effetto, devono mettersi una giacca.

Il film registra passaggi delle sue lezioni d’anticapitalismo.

La storia dell’industria tessile e dell’abito è vergognosa. Non c’entra la moda, ma la società nella sua struttura politica, religiosa: nel ruolo imposto alla donna. Ai ragazzi ho mostrato pagine della pubblicità nelle riviste di moda, terribilmente simboliche dell’idea che si vuol dare e mantenere della donna. Altra domanda : Perché non si sopporta l’imperfezione

Ricorre Milano nel film, girato nel suo ‘covo’, vagheggiato trampolino di fuga.

È la città che vorrei lasciarmi alla spalle. Non siamo mai andate d’accordo, io e Milano, da quando, dopo gli Usa, ho rimesso piede in Europa. Non mi piace più uscire la notte. Passo il mio tempo in casa. Salvo qualche giro veloce in bicicletta. Ma come si fa a stare in una città dove anche il Duomo si ricopre di pubblicità per pagarsi la pulizia dei marmi ? Dove i tram sono pubblicità viaggiante? Lo sponsor! E che cosa non si fa per imitare gli altri: ora anche Milano può dire ‘i grattacieli, li abbiamo anche noi’…

Com’è arrivata, lei leggenda vivente sempre in fuga, a ‘subirsi’ in un documentario?

L’ho fatto per mio figlio. In realtà non è un biografilm, ma una riflessione sul potere dell’immagine: un film a tema, sulla relazione tra chi ama l’immagine e chi la disprezza, rinunciando dunque a qualsiasi belletto, guardando in faccia la vecchiaia, che c’è. Ho sempre odiato esser fotografata e detestato essere ripresa. Ma, come dico a Beniamino quando mi chiede perché, alla fine, abbia accettato la persecuzione della sua cinepresa, « dovevo scegliere se ferire te o me stessa. Ho scelto di ferire me». Ma ho anche vissuto quest’esperienza come se fosse un battesimo per mio figlio, un’opportunità per la vita. Ho sentito questo in America la sera della proiezione al Sundance, in quell’America che è stata all’origine del mio destino.