Economia

«Bene l’ingresso di Cdp ma la rete rimanga in Tim»

«Bene l’ingresso di Cdp ma la rete rimanga in Tim»Il segretario della Slc Cgil Fabrizio Solari

Intervista a Fabrizio Solari (Cgil) Ventennio privatizzazione disastroso - dipendenti dimezzati - ora si volti pagina, anche se l’alleanza è strana. Andremo dai capigruppo per far cambiare il piano Genish

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 5 maggio 2018

Fabrizio Solari, segretario generale Slc Cgil, da sindacalista esperto e navigato del capitalismo italiano, come giudica la vittoria di Elliott nella battaglia Tim? L’ingresso di Cassa depositi e prestiti era una vostra richiesta.
Lo giudico positivo, ma non risolutivo. Le scelte fatte da Vivendi non erano condivisibili. Ma il tema vero è che Telecom, dalla privatizzazione in avanti non ha avuto pace. A noi l’idea di public company va bene ma con un timone e Cdp deve avere proprio questo ruolo: essere il guardiano di una visione strategica del paese in campo di telecomunicazioni.

L’obiettivo dell’ingresso di Cdp però è stato portato a termine da una compagine che aveva come scopo primario bloccare la calata dei francesi. Una accozzaglia – appoggiata da Berlusconi, governo col placet di Lega e M5s e finanza – guidata da un fondo speculativo americano…
Per me il tema non è fare il tifo per una nuova squadra. Quello che è avvenuto è una costante degli ultimi 20 anni: una accozzaglia oggi, un imprenditore francese chiacchierato prima, gli spagnoli di Telefonica accompagnati dalle banche, Colaninno senza soldi, Olivetti-De Benedetti, il nocciolo duro Fiat. Il risultato è che prima della privatizzazione Telecom aveva 123 mila dipendenti, 23 miliardi di euro di fatturato, 6 miliardi di investimenti l’anno e debiti per 8 miliardi. Oggi ha 50mila dipendenti, al lordo dell’inflazione ha circa 20 miliardi di fatturato, investe 5 miliardi e ha 25 miliardi di debito. Ci sono state molte fasi ma il risultato del ventennio è fallimentare. Non vorrei che quella di oggi fosse l’ennesima puntata del solito romanzo. Noi invece vogliamo che si cambi registro, si stabilizzi l’azienda con capacità di fare e mantenere scelte strategiche in un settore fondamentale dell’economia 4.0.

Insisto, non le pare paradossale che chi ha vinto la battaglia – il fondo Elliott – per prima cosa dica che conferma l’amministratore delegato scelto da Vivendi.
Non è strano, è di più. È incomprensibile a dei comuni mortali come me. Per capirlo bisognerebbe essere dentro i meccanismi che guidano quel mondo. Di certo si è mosso un pezzo di capitalismo italiano con appoggio del governo e usando come strumento un fondo speculativo straniero. L’unica spiegazione è quella degli interessi coincidenti: il governo voleva salvaguardare la rete e la finanza punta a ricreare dividendi. Obiettivi molto diversi. Proprio per questo non mi fido del fatto che abbiamo svoltato.

Il regista dell’operazione – Carlo Calenda che ha piazzato molti amici nel cda: Conti, Gubitosi, Sabelli, Morselli – ora dice di voler accelerare sulla separazione della rete.
Ricondurre a sintesi la dualità tra le reti Tim e Open Fiber di Enel è sensato perché eravamo l’unico paese al mondo con due reti in fibra. Ora serve però che la rete rimanga dentro Telecom perché diversamente Tim diventerebbe un contenitore con 25mila dipendenti con lo stesso mercato mobile di Vodafone e Wind che hanno 6mila dipendenti: quattro volte di meno. Sappiamo già come andrebbe a finire per i lavoratori.

Genish e i vincitori però la pensano diversamente. Il piano industriale prevede 6mila esuberi e la separazione della rete da Telecom.
Il piano industrial vorrei sapere quale: ne abbiamo viste tre versioni differenti e i 6mila esodi tra prepensionamenti e incentivi erano previsti entro l’anno: siamo a maggio e i tempi non ci sono più. Quanto alla separazione della rete siamo molto preoccupati e vogliamo far cambiare idea all’azienda: per questo come sindacati con Cisl e Uil abbiamo chiesto di incontrare i capigruppo in parlamento per spiegare la gravità della scelta e le conseguenze occupazionali.

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