Protagonista assoluto dell’investimento emotivo e intellettuale di Ben Lerner, in tutte le forme della scrittura da lui sperimentate – poesia, saggio, romanzo – il linguaggio, o meglio la tensione fra la facoltà di linguaggio in quanto requisito biologico della natura umana e la sua realizzazione nell’atto di parola, invade anche lo stupefacente spazio dell’ultima, prodigiosa prova narrativa dello scrittore americano, Topeka School (bella traduzione di Martina Testa, Sellerio, pp. 372, € 16,00).

Il punto di vista cambia a seconda dei personaggi in campo, e anche la datazione degli episodi raccontati oscilla tra passato e presente; ma c’è un luogo in cui converge la maggior parte dei fatti, o dei flash-back, o delle motivazioni che hanno permesso agli uni di incontrarsi con gli altri, e questo luogo è un Istituto per la cura della sofferenza mentale situato alla periferia di Topeka, la cosiddetta Fondazione.

Vi appartengono entrambi i genitori di Adam, controfigura dell’autore attorno al quale tutto ruota: la madre, Jane Gordon, è una psicologa nonché autrice di un libro il cui successo le ha attirato lo sdegno degli Uomini, che le telefonano per darle della «troia femminista»; il padre, Jonathan, è un analista che segue «i ragazzi perduti», allievo e successivamente grande amico di Klaus, il quale era stato collaboratore di Jung a Zurigo, e una volta approdato alla Fondazione ne aveva rivitalizzato la burocrazia, imprimendo alla sue schede di valutazione «un tocco di feuilleton weimariano».

Intellettuali del Kansas
Accanto ai coniugi Gordon, i loro migliori amici, Sima e Eric, entrambi membri della Fondazione, che tollera evidentemente intrecci non esclusivamente professionali tra i suoi adepti: prima di diventare l’analista di Jane, Sima era stata la sua migliore amica, e la loro alleanza terapeutica era stata preceduta da una solidarietà femminista, che non avrebbe impedito tuttavia a Sima di diventare l’amante di Jonathan. Questo il contesto in cui Adam cresce, non a caso iscritto alla locale Montessori, poi sempre più coinvolto nei dibattiti linguistici praticati nei tornei interscolastici: «rituali glossolalici», così gli appariranno a distanza di tempo.

In «Contest of Word», antecedente autobiografico di questo romanzo, che Ben Lerner scrisse per «Harper’s» nell’ottobre del 2012 (tradotto da Sellerio nell’Almanacco 2014-15 con il titolo «Gara di parole») lo scrittore americano aveva rivelato di essersi congedato da Topeka, sua città natale, con il punteggio complessivo più alto nella storia della National Forensics League. All’epoca, Ben Lerner si considerava un poeta e tale pensava di restare: ciò che gli interessava era la fisicità del linguaggio implicata nella poesia, questo «miracolo mondano», avrebbe detto in una intervista a Jill Owens, che ci rende possibile emettere vibrazioni d’aria tramite le quali condividiamo con gli altri la nostra coscienza.

Gare di oratoria
Alcune tra le pagine più singolari del romanzo vedono Adam impegnato in competizioni di oratoria che mirano a «asfaltare» l’avversario tramite argomentazioni sostenute da un linguaggio solo apparentemente trasparente, in realtà staccato dal mondo reale e finalizzato a nascondere informazioni dirimenti: sequenze di sillogismi la cui logica non reggerebbe a una trascrizione, schermaglie che al tempo stesso assorbono e sublimano la violenza adolescenziale dei ragazzi di Topeka.

Tutti o quasi i materiali narrativi di Ben Lerner, questo figlio di intellettuali progressisti allevato nel Kansas ultraconservatore, provengono dal serbatoio dei suoi ricordi, e tutti sembrano obbedire a una qualche istanza di dislocazione, a un ritrovarsi fuori posto. Nel capitolo introduttivo, Adam non si accorge che la sua ragazza si è lasciata scivolare dalla barca nel lago, si gira e non la vede, torna a terra e va cercarla, ma confonde la villetta dei genitori di lei con un’altra identica del lussuoso comprensorio di Lake Sherwood, e si ritrova disorientato e in pericolo, nella casa sbagliata.

Più avanti, nel capitolo in cui la madre di Adam parla in prima persona, un oggetto fuori posto funziona da debole indizio del fatto che qualcosa non va: il succo di frutta che Adam aveva preso poco prima, abbandonato intonso sulle scale dove di certo non dovrebbe stare, si converte in un segnale di allarme: «È difficile spiegare come il vedere una cosa normalissima avulsa dalla grammatica del quotidiano possa tutt’a un tratto segnalarci un’irruzione della violenza» – commenterà.

La deviazione dalla norma più significativa del romanzo, quella incarnata nel personaggio di Darren, induce Ben Lerner a cambiare carattere tipografico: dal tondo passa al corsivo, come nei frammenti dell’Urlo e il furore in cui Faulkner fa parlare Benij, «the idiot». Anche Darren è un ragazzo con problemi psichici e cognitivi, crede che il suo pensiero abbia attributi magici, si sente colpevole della morte del padre per averla desiderata, teme di avere ricevuto una chiamata dal diavolo. Di lui l’autore del romanzo dice che era all’asilo con Adam, quando «aveva la stessa età del suo corpo», alludendo al fatto che, dopo, invece, era intervenuto un ritardo.

Gli altri ragazzi considerano Darren il loro Kaspar Hauser, obbediscono obtorto collo ai genitori che li pregano di includerlo nella loro cerchia; ma arriva l’occasione in cui lo abbandonano di ritorno da una gita, e Darren vagherà trasognato nella campagna per giorni e giorni, finché una apparizione fugace alla fine del romanzo ce lo farà ritrovare, muto con in mano un cartello intimidatorio, tra un gruppetto di manifestanti omofobi e reazionari.

Sostituti della violenza
Non a caso, naturalmente, il confino di Darren ai margini della condivisione sociale lo ha portato a farsi rappresentante dei limiti estremi della intolleranza: anche per questo personaggio Ben Lerner ha pescato nei suoi ricordi di infanzia; se ce lo restituisce ragazzo, poi uomo, senza mai dargli la parola, e se colloca i passaggi che riguardano Darren alla periferia dei capitoli cruciali, in cui le performance linguistiche degli altri personaggi dominano la scena, è perché (come già per Faulkner) il tentativo di adottare il punto di vista di un ritardato mentale forza i confini della sua capacità di resa nella scrittura.

E, al tempo stesso, il personaggio di Darren riporta il suo autore alle più infantili competenze linguistiche di tutti noi, contraddistinte dall’incertezza sul significato delle parole, che spediamo verso l’altro in attesa di verificarne l’uso condiviso, e dunque la pertinenza a ciò che intendevamo nominare.
Mentre gli anni passano e il romanzo disordinatamente li riavvolge sul nastro del tempo, Adam-Lerner fa sue le elaborazioni mentali del padre, incorpora il solidale dialogo a distanza con la madre e, al termine del libro, questo meraviglioso repêchage nei depositi della psiche, tra verità storiche e reclami narrativi, ormai genitore di due bambine fronteggia la prepotenza di un altro padre, guidato da strategie educative opposte: «eravamo due uomini senza sovrani in uno stato hobbesiano di natura, sull’orlo di uno scontro primitivo». Poi, quasi a suggello del suo investimento negli ideali del proprio alter-ego, finalmente dà sfogo a una ironia ben radicata nelle proprie convinzioni: «io sono il padre – fa dire a Adam – sono lo strumento arcaico della violenza maschile che la letteratura dovrebbe soppiantare sostituendo alla fisicità il linguaggio».