Nessuna attualità editoriale si accompagna a questa intervista con lo scrittore americano Ben Lerner, piuttosto l’attualità senza tempo degli argomenti che sollevano i suoi libri, a cominciare dal breve saggio che ne riflette i più remoti interessi, Odiare la poesia: non una istigazione, bensì la messa in evidenza del paradosso per cui difendere l’ideale utopico di un’arte in grado di fermare «con grazia» il tempo, implica – spesso – l’esecrarne gli artefatti: «Ecco il problema fatale della poesia: le poesie».

Quel che interessa Ben Lerner è la possibilità di riavvicinarsi alla originaria instabilità linguistica dell’infanzia, «all’idea del linguaggio come forza creativa e distruttiva», ciò che gli permette di concentrarsi sugli aspetti non soltanto semantici, ma fisici, materici, sonori della interazione fra la nostra esperienza e la sua traducibilità linguistica. Nel 2003, grazie a una borsa Fulbright si trasferì a Madrid, e si trovava ancora lì quando nel marzo dell’anno successivo ci furono gli attentati alla metropolitana: all’Io protagonista del romanzo che comincia a scrivere in quel periodo – e che si intitolerà Un uomo di passaggio (Neri Pozza 2011) – arrivano echi lontani di quanto sta accadendo, notizie di morti e feriti, scorci delle manifestazioni, scambi di frasi indignate; ma la sua mente vaga piuttosto tra i patemi indotti da un innamoramento e quelli provocati da una seconda relazione, e su queste passioni giovanili riflette fra condizionali controfattuali e fantasie declinate «alla luce adulatoria del congiuntivo».

Tra le pagine del romanzo successivo, Nel mondo a venire (Sellerio 2015) nel corso di una conferenza davanti a un uditorio di studenti, viene chiesto all’Io narrante (che qui e altrove faremo a meno di chiederci per quanto e per cosa coincida con l’autore del libro) come abbia deciso di diventare un poeta: accadde, dice, all’età di sette anni, quando gli capitò di ascoltare il discorso con cui Ronald Reagan annunciò la disintegrazione della navicella spaziale Challenger: «Il significato delle parole fu nulla in confronto a quella prima esperienza di metro poetico: mi sentii allo stesso tempo confortato e commosso dal ritmo e capii che da una parte all’altra dell’America quei ritmi stavano agendo su milioni di altri corpi».

Molto altro accade, ovviamente nel romanzo, dall’uscita del quale sono passati sette anni, ma qui interessa solo quel filone che si ripropone un po’ come il basso continuo delle partiture mentali di Ben Lerner, ovvero la autoriflessività della prosa che si ripiega sui propri mezzi espressivi per dilatarne il senso, o coglierli in fallo. Nessuna tentazione sperimentalistica e nessuna riabilitazione di nostalgie avanguardiste compromettono i libri di Ben Lerner, tutti connotati da una commovente assenza del benché minimo cinismo e da una intelligenza impegnata in esigenti prove di attenzione, senza alcun cedimento alle scorciatoie del «mestiere»: né quello di vivere né quello di scrivere.

Ancora, o almeno in buona parte, coincidente con l’Io dell’autore, l’ultimo romanzo, del 2019 (tradotto l’anno successivo da Sellerio) Topeka school, è ambientato almeno parzialmente nella capitale del Kansas dalla quale Ben Lerner proviene. Ne parleremo a lungo nel corso dell’intervista (in questa e le successive pagine), che le contingenze hanno relegato a un lungo incontro su Zoom. Basti sapere, per orientarsi, che l’Adam protagonista, ormai adulto e a sua volta padre, ripercorre la propria infanzia e giovinezza alternando capitoli in cui è sotto l’occhio di un narratore impersonale a sezioni in cui dà, di volta in volta, la parola ai genitori, entrambi psicoterapeuti interni alla cosiddetta Fondazione, un istituto e ospedale psichiatrico di fama mondiale con sede a Topeka.

Alla periferia di questi racconti, scritte in corsivo, le parti dedicate a Darren, un ragazzo che i suoi coetanei chiamano «il nostro Kaspar Hauser»: più o meno a partire dai quattro anni Darren sembra avere separato la propria età da quella del suo corpo. È un «uomo bambino», ossessionato dalla morte del padre con cui aveva avuto un cattivo rapporto e cui ha destinato pensieri che teme essere responsabili dell’incidente in cui è morto. Adam invece è un ragazzo fragile, soggetto a instabilità emotiva, molto dotato: da adolescente partecipa a gare di oratoria che impegnano le capacità linguistiche e cognitive dei ragazzi fino a capovolgersi in fughe nel nonsense.

Della sua parabola esistenziale parleremo con Ben Lerner, in una lunga conversazione: vale la pena condividere, per quanto possibile, questa sua capacità di addivenire freudianamente ai processi della conoscenza tramite gli affetti, ovvero tramite energie psichiche che restituiscono la freschezza dell’inedito a ragionamenti che fanno parte della condizione umana.

Ulf Andersen, ritratto di Ben Lerner, 2016, Getty Images

 

Lei ha descritto in un saggio comparso su «Harper’s» con il titolo «Gara di parole» i dibattiti linguistici cui partecipava da adolescente. Come hanno avuto origine queste competizioni e quale eredità hanno lasciato alla sua scrittura?
Non credo che sia una pratica nata dalla decisione di qualcuno in particolare: uno degli elementi interessanti nello sviluppo di questa tecnica davvero bizzarra chiamata spread, in cui si parla il più velocemente possibile fino a far diventare il linguaggio una sorta di glossolalia incomprensibile, è che si è sviluppato tra gli studenti come una specie di ribellione contro l’ordine del discorso e le sue norme; insomma, contro l’idea che per diventare cittadini bisognasse essere in grado di portare argomenti alla sfera pubblica. Un po’ come la musica punk vanificava un ideale musicale, così le gare di velocità con le parole intendevano distruggere le norme degli adulti sull’ordine del discorso. Per quanto riguarda l’eredità che queste performance hanno lasciato alla mia scrittura, direi che penso alla poesia come al polo opposto di quegli strani rituali linguistici. Quel che più mi sta a cuore di quanto ho imparato dalla poesia d’avanguardia ha a che fare con la de-familiarizzazione della lingua, ovvero con l’idea di far tornare il linguaggio straniero, com’era originariamente per ciascuno di noi quando eravamo bambini. Ovviamente, la poesia è anche quanto di più distante c’è dai discorsi vuoti e banali dei politici americani. Il mio ultimo romanzo, Topeka school è nato dal tentativo di tenere insieme gli aspetti distopici e ridicoli di queste gare di retorica, che hanno il potere di spingere il linguaggio fino al collasso, e quei barlume di poesia che tuttavia esse contengono. Del resto, anche della letteratura penso che sia al tempo stesso qualcosa di tanto importante da organizzarvi intorno la vita, come io stesso ho fatto, e qualcosa di totalmente assurdo e ridicolo.

La poesia – lei ha scritto – nasce dal desiderio di superare la dimensione finita per raggiungere l’ordine del trascendente; ma questa aspirazione si scontra con la finitezza dei nostri mezzi. L’investimento sulla parola poetica metterebbe dunque in campo una intenzionalità diversa da quella implicita nello scrivere in prosa. Perché mai, le chiedo? Mi ricorda un po’ Arthur Danto quando nel suo saggio «La trasfigurazione del banale» dice che uno dei fattori che distingue un oggetto di uso comune da un oggetto d’arte è l’intenzionalità che sta dietro il fatto di incorniciarlo nello spazio di un museo.
Penso che la poesia sia tanto una pratica di scrittura quanto di lettura, e che consista comunque di un insieme di pressioni che esercitiamo sul linguaggio. Spesso do da leggere agli studenti un qualsiasi testo invitandoli a far emergere tutti i parallelismi di struttura e suono che sono capaci di trovare. Così vedono come si possano tirare fuori attributi poetici anche da un testo che non somiglia affatto a quanto ci si aspetta dalla poesia. Pensi, per restare al contesto americano, a quei famosi pochi versi di William Carlos Williams che riguardano una piccola nota lasciata sul frigorifero per scusarsi con la moglie di aver mangiato le prugne messe via per il breakfast. È come se Williams stesse dicendo: cosa succede se facciamo l’esperimento sociale, cognitivo e estetico di leggere questo testo che non sembra una poesia come se lo fosse? Non è molto diverso dall’esempio di John Cage che invita a sentire il silenzio come musica.

Così, a volte penso che «poesia» sia una parola usata per invitare a un certo tipo di attenzione. Nei miei libri il tentativo è proprio quello di trasfigurare la non-fiction mettendola nella cornice di un romanzo, una operazione in un certo senso simile a quella descritta da Arthur Danto, e perciò trovo il suo riferimento molto azzeccato. Una della ragioni di fascino della letteratura sta, per me, nel suo essere un terreno di prova per ciò che è in gioco nell’esperienza estetica, quando qualcosa di ordinario si ritrova trasfigurato in qualcos’altro di più elevato. Succede, appunto, quando esercitiamo una pressione sul linguaggio che mettiamo in pagina. A Arthur Danto interessava la reazione della gente che si rifiuta di vedere una scatola di Brillo come un’opera d’arte. A me interessa l’imbarazzo che, a volte, provocano i manufatti artistici, e quell’ansia che deriva dall’avere introiettato una inadeguatezza nei confronti della poesia, la quale ansia a sua volta deriva dalla convinzione che un poeta sia più in contatto di te con la propria esperienza interiore.

Sia i personaggi che alcune loro azioni sembrano obbedire, un po’ in tutti i suoi romanzi, a una istanza di dislocazione, a una sorta di disorientamento rivelatore. All’inizio di «Topeka School», Adam entra, per cercare la sua fidanzata in una villa sul lago che è simile a quella dove lei abita, ma non è quella giusta. Più avanti, la madre, Jane, racconta del giorno in cui fu messa in allarme circa le condizioni di salute di Adam dal semplice fatto che aveva abbandonato un succo di frutta sulle scale, dove non sarebbe dovuto stare. E un’altra deviazione dalla norma è incarnata nel personaggio di Darren, un ragazzo con un ritardo mentale, del quale parleremo.
Sì, è un’interessante costellazione di momenti che fa pensare a quel che avviene quando la comprensione di sé o di qualcun altro cambia e di conseguenza il proprio mondo è costretto a riconfigurarsi. Finzione è una parola che per me rimanda al modo in cui tentiamo di organizzare significativamente i fenomeni disparati dell’esperienza, anche se forse questo suona un po’ più solenne di quanto non vorrei. Penso a Wallace Stevens, che intendeva la letteratura come un campo da cui i significati convenzionali sono fuggiti e al posto loro si manifesta il potere che la mente ha di creare un ordine a partire da materiali contingenti: è così che diamo senso a ciò che è provvisorio, è così che creiamo significati. Uno degli elementi che mi ha sempre affascinato del genere romanzo è come riesca a raffigurare quei momenti in cui quel che ci raccontiamo cambia a seconda di come i personaggi organizzano la realtà intorno a loro. Per esempio, tra le pagine di Nel mondo a venire, ho messo una scena che dà un po’ il senso di tutto il libro, in cui una donna di nome Noor racconta come abbia costruito la propria identità in quanto figlia di un libanese, e di conseguenza si sia impegnata politicamente, si sia laureata sui temi del Medioriente, per poi apprendere dalla madre che quello con cui era cresciuta non era il suo padre biologico. Lo racconta alla voce narrante, che le dirà: «scoprire di non essere identici a se stessi, anche nel modo più destabilizzante e doloroso, contiene comunque la scintilla, per quanto rifratta, del mondo a venire…». Penso che il romanzo sia un genere molto funzionale a mostrare quei momenti in cui una storia alternativa può ancora essere raccontata, dove si intravede una sorta di utopistico barlume, una vertigine data dal fatto che una storia vecchia sta tramontando per lasciare il posto a una nuova.

Oltre al brano che lei mi ha indicato, e che segnala il pericolo che Adam abbia perso conoscenza, ce n’è un altro – sempre in Topeka School – in cui Jane, sua madre, ricorda una scatolina portafazzoletti che i genitori le regalarono da piccola e che la sorella le fece credere fosse stata dipinta per lei da una scimmietta straordinaria. Finché – ormai adulta – ne vede una identica su un banchetto e scoppia a piangere. Scoprire che quella scatolina è un oggetto del tutto ordinario la costringe a rompere l’incantesimo delle sue fantasie infantili. Inoltre, più tardi diventerà una psicoterapeuta, e nel suo studio di quelle stesse scatoline di fazzoletti torneranno a servirsi i suoi pazienti quando rivivranno momenti dolorosi del loro passato. Anche qui, accade qualcosa che ha a che fare con la trasfigurazione del banale: quell’oggetto fatato subisce una retrocessione a oggetto ordinario. Mentre si perde il fascino della storia che Jane si era costruita da bambina, al tempo stesso un’altra forma di incanto si produce dalla capacità di trovare nuovi significati a quanto era accaduto. Ecco, ciò che mi interessa è questo processo di disincanto e di reincantamento che nasce dalla possibilità di raccontare storie impregnate di determinati significati e poi disinvestirle di senso.

Passiamo al personaggio di Darren: ricorda molto il Benji di «L’urlo e il furore», ma Faulkner lo fa parlare in prima persona, mentre lei non consegna a Darren una sua voce. Lui è, anzi, l’unico a non averne una. Nella percezione degli altri ragazzi, Darren è «un surplus negativo». Forse perciò lei scrive le parti che lo riguardano in corsivo, come fossero una eccedenza del testo?
Molti lettori hanno pensato che la scommessa, per me, fosse avere accesso alla mente di Darren, perché a questo effettivamente mira l’idea tradizionale della narrativa: penetrare la psiche dei personaggi. Io invece intendevo, con il passaggio al corsivo, rappresentare la soglia dei limiti immaginativi di Adam. E proprio perciò, queste sezioni dedicate a Darren sono situate alla periferia del corpo principale del testo. Tutto il libro si regge sul tentativo di Adam di immaginare retrospettivamente la propria infanzia: Darren fa parte dei suoi ricordi, ma lui non finge mai di avere effettivamente accesso all’esperienza dell’amico o alla sua voce. Mi ha sempre molto interessato, del genere romanzo, non solo quella incredibile immaginazione empatica che ti permette di abitare la mente dell’altro, ma anche i momenti di blocco dell’immedesimazione. E così, non mi interessava mettere in scena, come fa Faulkner, una sorta di ventriloquio che testimoni della mente di Darren; desideravo piuttosto mostrare i limiti di Adam nel penetrare i pensieri dell’amico, e come sbiadisce la sua pretesa di prendere contatto con la psiche dell’altro.

Adam e Darren hanno in comune una sorta di senso di colpa che li porta a pensare che le proprie fantasie negative si trasformino in fatti: dietro le sue emicranie, Adam crede che ci sia una aggressività repressa. E Darren è convinto che i suoi cattivi pensieri sul padre siano responsabili dell’incidente in cui l’uomo è morto.
Sì, questo è un punto cruciale. Entrambi credono nel potere magico del pensiero e questo li avvicina in qualche modo ai poeti, perché la credenza nel potere incantatorio del pensiero è fondamentale nel fare poesia. Una connessione sottile ma altrettanto determinante tra i due avviene, nel romanzo, quando entrambi vengono ri-iniziati al linguaggio, l’uno dal genitore dell’altro. Dopo la commozione cerebrale, mentre Adam sta tornando a prendere coscienza, la madre di Darren, che fa l’infermiera, allo scopo di verificarne la ripresa cognitiva gli chiede di riconoscere le lettere stampate sulla sua maglietta. E, del resto, anche Darren viene iniziato al discorso su di sé da Jonathan, il padre di Adam, che lo prende in analisi. Entrambi i genitori svolgono la funzione di far tornare i ragazzi a quello stadio molto remoto che corrisponde al passaggio dalla facoltà di linguaggio all’atto di parola.

Ci sono in «Topeka School» descrizioni particolarmente felici di cambiamenti improvvisi di status, o di repentine scissioni tra la volontà di un personaggio e l’azione contraddittoria che ne consegue, o fra la parte razionale del pensiero e il suo vagare disordinato. Tre esempi. A un certo punto, Adam – dopo avere confuso la villa della sua ragazza con un’altra simile, entra e vi trova uno sconosciuto che scambia per il fratello di lei. Il tutto è descritto semplicemente così: «Il giovane, che prima era il fratello di lei, si era voltato…». Poi, il padre, Jonathan, rievoca la sua relazione con una analista amica della moglie, e lei gli fa dire: «Non c’era nessuna tensione, finché all’improvviso ci fu». E quando Adam incontra al parco giochi il provocatorio genitore di un bambino maleducato, accade questo: «mi imposi di non girarmi per non vedere il suo sorriso. Mi girai, vidi il suo sorriso»…
Sono passaggi per me davvero cruciali, dove cerco, in una frase, di raggiungere ciò di cui parlavamo a proposito della trasfigurazione di un oggetto: da oggetto banale a oggetto artistico, quando cambia il contesto in cui viene posizionato. Le persone che abitano quelle scene vengono descritte in una determinata situazione e poi ri-raffigurate in una nuova prospettiva, mentre tuttavia sono ancora incalzate dalla loro percezione originaria, una percezione che si è rivelata errata. Il compito della scrittura per me è rendere questo istante in cui un cambiamento percettivo si riflette in una trasformazione sintattica. In tempo reale, mentre si legge. Sono passaggi in cui un evento concettuale accade mentre la frase rapidamente si svolge, in modo che il linguaggio non si distacchi dall’esperienza. Anche questa attenzione in una certa misura mi viene, credo, dall’essermi molto concentrato sulla poesia, per esempio sulla questione dell’enjambement, e più in generale sul quando spezzare il verso allo scopo di significare che qualcosa sta cambiando, mentre si vive l’avventura formale del leggere. Ricordo vagamente una frase di The Recognitions, di William Gaddis, in cui qualcuno accende un fiammifero e in un tempo molto dilatato lo porta alla sigaretta: leggendo, sentivo come la lunga estensione della frase in cui l’autore cercava di sintonizzare quel piccolo gesto con l’esperienza cognitiva del personaggio, segnalasse un dramma. In Speak, Memory, di Nabokov, accade qualcosa di simile: ci sono frasi incredibili nel rendere la percezione del modo in cui il ricordo si allontana mentre si cerca di catturarlo. Per me tutta la questione della prosodia sta qui, nel catturare la forma dell’evento nella plasticità di una frase. In queste piccole trasformazioni che si attuano al livello della grammatica, capaci di trasformare le percezioni del lettore mentre legge, sta – a mio avviso – una componente fondamentale dell’arte della finzione.

Tra le sue molte osservazioni ce n’è una che dice: «sotto il peso del linguaggio le forme si dissipavano, rimanevano un fenomeno irriducibilmente privato». Non so se sia voluto, ma c’è una forte eco dell’Hofmannsthal della «Lettera a Lord Chandos», quando dice che «le parole gli si disfacevano in bocca come funghi ammuffiti…»
Ah sì, un’opera d’arte incredibilmente bella sulla impossibilità di continuare a fare arte: anche se il mio riferimento non è esplicito, mi ritrovo in questo rimando, perché anch’io alludevo a una insufficienza dei nostri materiali linguistici di fronte all’ideale che ci evoca la poesia. E, al tempo stesso, però, avevo bene in mente il fatto che i significati sono costrutti sociali. Essere in grado di mettere in parole e rendere condivisibili quelle esperienze di rottura del linguaggio, o di spersonalizzazione che sono intrinseche all’arte, sono esempi del potere implicito nella secondarietà del linguaggio, dove le parole si caricano di significati proprio grazie alla loro distanza dall’originale che intendono evocare. C’è un piacere anche nel descrivere i limiti di ciò che può essere condiviso tramite la finzione. Parte del potere dell’arte sta per me nella sua capacità di evocare qualcosa di cui non si può avere una esperienza diretta; e in questa possibilità di comunicare la nostra apparente povertà di esperienza va pensato il passaggio verso significati socialmente costruiti.

In ogni capitolo di «Topeka School» si fa avanti un personaggio e lei lo fa parlare in prima persona perché ripercorra la sua storia. Il capitolo dedicato a Jonathan, suo padre, passa continuamente da immagini provenienti dal suo passato a bruschi richiami alla contingenza: è su un volo per New York, dove sta andando a raggiungere Adam sprofondato in una crisi sentimentale. La sua mente va e viene tra immagini provenienti dalla sua storia a richiami al qui e ora, imposti dalle voce del comandante dell’aereo. È il mio capitolo preferito, il suo qual è?
Mi è più facile dire quale capitolo mi ha messo più in difficoltà. Con ognuna delle voci del romanzo ho un rapporto diverso, ma anche se molto di quanto racconta Jonathan proviene dalla sua vita reale, la sua voce non è quella del mio vero padre. Invece, la voce narrante di Jane coincide di più con la vera voce di mia madre, o almeno per metà è la sua e per metà è mia. Il fatto è che il mio rapporto con mio padre è stato così emotivamente sovradeterminato da fattori esterni a quanto passa tra me e lui che questo ha condizionato la sua voce in quanto personaggio. Il montaggio di tempi cui faceva riferimento nella sezione dedicata a Jonathan è effettivamente orchestrato in modo da mettere in campo, al tempo stesso, vicende appartenenti al suo passato e passaggi appartenenti alla vita di Adam, che ora – nei pensieri di Jonathan – è più vecchio dell’adolescente che partecipava ai dibattiti linguistici, ma è più giovane dell’Adam che sta scrivendo il libro. Quindi ci sono tanti diversi tipi di tempo che girano intorno alla mente di Jonathan, mentre la voce del comandante si inserisce con il suo richiamo al presente. E quando atterra a New York, contemporaneamente si trova nella città attuale, dove sta raggiungendo Adam, ma anche in quella di dove era stato otto anni prima con Sima, la amica di Jane (sua moglie e mia madre) che era diventata la sua amante. È un momento importante nel libro, almeno per me che l’ho vissuto come una scommessa sulla possibilità di sincronizzare tutti questi tempi diversi.

Molti passaggi dei suoi libri fanno pensare che lei sia un lettore sia di testi di antropologia filosofica, sia di filosofia del linguaggio, sia di psicoanalisi. È così?
Quel che mi attrae di queste letture è la concentrazione sul grado zero del linguaggio, quando materiali molto banali come colonne di aria vibranti nella nostra laringe si convertono in costrutti sociali. Sono stato sempre al tempo stesso inorridito e affascinato dalle espressioni dell’inconscio: le faccio un esempio recente. A un certo punto, l’estate scorsa, quando eravamo tutti abbastanza stressati per gli effetti della pandemia, ho raccontato ai miei, entrambi psicoterapeuti, quanto fossi in ansia per mia figlia, perché a forza di parlare sempre con la bocca piena, un giorno sarebbe potuta soffocare. Bene, la sera, a cena, mi è andata di traverso una foglia di alloro lasciata nella salsa, e stavo per soffocare io stesso: è stato un momento disgustoso e doloroso al tempo stesso. Le mie figlie erano sconvolte. Ora, sia l’idea che tra il mio discorso e il mio incidente ci sia stata una mera coincidenza, sia l’ipotesi che mi sia procurato un soffocamento come conseguenza inconscia della mia paura, mi sembrano inaccettabili. Non saprei nemmeno dire quale delle due mi spaventi di più. Tutto causale o tutto governato da un ordine? Non quello di Dio né di nessun’altra entità trascendente. No, quello del mio inconscio. Questo è un esempio di come la parafrasi freudiana di quanto avviene nella nostra psiche equivale a un re-incantamento del linguaggio: ciò che accade si carica improvvisamente di un significato. Il soffocamento è un significato. Sono interessato alle verità che la psicoanalisi può svelare, sì, ma penso anche che possa tramutarsi in una sorta di religione il cui credo sta nell’attribuire significati a ogni azione. Tornando alle credenze di Adam e di Darren nel potere di trasformare le loro fantasie in azioni dannose, credo che evocare questa sorta di pensiero magico sia terribile; ma lo è anche il pensare a una assenza di senso. Le facevo l’esempio del mio soffocamento più che altro per ricordare che la nostra evoluzione in quanto animali umani ha comportato l’impossibilità di deglutire e respirare allo stesso tempo, grazie a quell’abbassamento della laringe, che ci permette di parlare. E questa nostra prerogativa è dunque al tempo stesso un pericolo. Rischio e mistero della parola vanno insieme.

Così, in Topeka School desideravo mantenere una sorta di meraviglia di fronte al linguaggio, e non a caso ho organizzato il testo intorno a quei teatri di parola in cui il discorso linguistico è portato al collasso: per esempio, quando in analisi si producono quegli inciampi tipici del racconto che segnalano qualcosa di rimosso; o nei dibattiti di freestyle basati sulla velocità che slitta nel nonsense; o nelle amnesie provocate da un trauma cranico. Sono tutti momenti, nel libro, in cui si prova dolore ma al tempo stesso si rinfresca quell’incantesimo del linguaggio che si produce quando l’aria che vibra nelle corde vocali dà luogo a quelle strane forme sonore, che a loro volta ci restituiscono il senso di essere parte di un mondo sociale, in cui l’informazione e l’affetto sono condivisibili.

Lei pensa che la sua prosa le riesca meglio quando descrive una azione o quando l’azione è assente?
La mia risposta è forse condizionata dall’avere cominciato come poeta, ma quando qualcuno mi dice che i miei libri non sono guidati da una trama a me viene da rispondere che per quanto mi riguarda l’evento di presentarsi semplicemente come un essere sociale o passare del tempo nel proprio corpo o nella propria mente è pieno di così tanti assestamenti, e di così tanti drammi interiori, e alla fin fine di una tale complessità, che è come se corrispondesse a un pieno di eventi. Ci sono scrittori, che ammiro molto, particolarmente bravi nel concentrarsi su determinate angolature o nel mettere a fuoco degli oggetti o nel muoversi nello spazio fisico o nelle descrizioni della violenza: Cormac McCarthy in Meridiano di sangue è uno di questi. Ciò che lo rende un libro incredibilmente bello, per me, è quella sua intensa esteriorità animale, così violenta. Non è tutto qui, ma è parte della sua bravura. La domanda è sempre: «quale rapporto c’è tra ciò che viene descritto e ciò che accade nella prosa stessa?». Voglio dire che non è tanto questione di presenza o assenza di azione, quanto di rapporto tra l’evento intrinseco alla frase e l’evento estrinseco, che la frase sta descrivendo. E questo, sia che si cerchi uno stile che abbia una relazione interessante con l’azione drammatica, sia che si tratti di mettere in parole il semplice ronzio della vita, o il lavorìo della coscienza. È proprio quando succede molto poco, che quel poco può essere difficile da catturare bene. Per me il dramma di un romanzo si svolge principalmente sul piano della orchestrazione e della costruzione linguistica in genere. Ho sentito dire molte volte che un romanzo è grande quando ti fa dimenticare di stare leggendo, tanto ne sei assorbito. So cosa si intende; ma, per me, non è così. Per me in questione è sempre il modo in cui la prosa interagisce con l’evento descritto: può trattarsi di Napoleone che invade Mosca o di guardare la neve che cade intorno a un lampione, la domanda è comunque relativa a come la prosa si accorda o si scontra intenzionalmente con ciò che intende descrivere. Per me, la bellezza di qualsiasi romanzo sta nella possibilità di prendere contatto con quel delicato equilibrio che si crea tra il senso della materialità della pagina, determinato dai piccoli segni che vi sono impressi, e le forme sonore loro associate.