Jean-Paul Rappeneau, che l’ha diretto in Gli sposi dell’anno secondo (1971), accendendo la miccia della più invidiata love story dell’epoca, quella di 8 anni con Laura Antonelli, è il regista che meglio ha sintetizzato l’indole cinematografica di Jean-Paul Belmondo. Confrontandolo con Gérard Depardieu, splendido interprete del suo Cyrano de Bergerac, il cineasta li ha così contrapposti: «Entrambi sbruffoni, di debordante guasconeria. Ma Depardieu sotto la crosta gradassa svela un’intima, fragile insicurezza. Mentre Belmondo rimane tutto d’un pezzo, senza incrinature possibili. Per questo, ho visto subito in Depardieu il Cyrano ideale». Per questo, La Sirène du Mississipi (La mia droga si chiama Julie), dove Belmondo è raggirato e domato da Catherine Deneuve, è stato, nel ’69, il più clamoroso insuccesso – al botteghino – di François Truffaut : il pubblico non poteva accettare un Belmondo perdente. Sta qui, nella rocciosa, inattaccabile spavalderia, eretta in ogni film e in ogni circostanza, l’inconfondibile, immutabile «tocco» allegramente monolitico dell’attore, imposto nelle innumerevoli scene acrobatiche eseguite senza controfigura e riaffermato persino dopo l’ischemia cerebrale del 2001, da cui, come una potente molla di nervi e muscoli, è riemerso con danni ridotti già nel 2008 («un gran lavoro, fatto di ginnastica e volontà – ripeterà nelle interviste tv, facendosi il verso di quando non riusciva neanche a emettere una sillaba -. Mi ha aiutato una vita di sport, soprattutto la box »).

Una vita di battaglia (dopo la nascita a Neuilly-sur-Seine 84 anni fa), nonostante l’apparente inerzia d’un successo senza sforzo, d’una carriera partita a razzo nel 1960 – À bout de souffle di Godard e, nello stesso anno, Lettere di una novizia di Lattuada e La ciociara di De Sica -, dove ha ribadito l’uniformità dello spaccone, del macho latino-francese, a inclinazione balorda. L’han premiato, in postuma allerta dopo l’improvvisa malattia, sia Cannes, con la Palma d’oro alla carriera nel 2011, che Venezia, con il Leone d’oro nel 2016, e, quest’anno, i César a Parigi, con plateale standing ovation. Lui, con soddisfazione di patriarca (tre figli più tre nipoti, dalla nuora italiana), la corona ridente di denti che sfiamma sotto i capelli bianchi, s’è già – apparentemente – consegnato al passato nella frizzante autobiografia Mille vite, la mia (Donzelli), scritta dal figlio Paul con Sophie Blandinières, dove confessa un unico rimpianto («non son riuscito a portare sullo schermo Viaggio al termine della notte di Céline, mio livre de chevet») e in quell’autobiografia in pellicola che è il documentario girato nel 2016 sempre da Paul, un «viaggio in Italia», a coronamento dei suoi novanta film, alla ricerca di luoghi e amori del suo cinema dell’altro ieri, tra cui l’ancora imperiale Ursula Andress (altra love story epocale, dal ’66 al ‘72), che non gli risparmia un accondiscendente rimprovero («sei stato l’uomo più possessivo ch’io abbia mai incontrato»).Sulla falsariga di questo on the road retrospettivo, riaccostiamo il Belmondo «italiano», ripartendo non dai titoli consacrati – La ciociara e La viaccia – ma dallo strepitoso, purtroppo dimenticato, Mare matto (1963) di Renato Castellani, in cui è un mozzo livornese spaccone (che il doppiatore Pino Locchi fa parere un Benigni portuale), in vena di facili conquiste (una Lollo pensionante, dal fascino appassito), con un Tomas Milian biondo che pronuncia la storica sentenza: «Tutte le città son femmine. Livorno è maschio ».

Che ricordo ne ha, Jean-Paul Belmondo?

Lontano, sicuramente… Ma Gina Lollobrigida, di superba bellezza pur imprigionata in panni dimessi di casalinga, è una memoria sempre viva. E sento ancora il suo morso felino sulla mia spalla, quando dice: «Tu mi lasci un segno. Io ti lascio il mio!». Formidabile l’imbarco, con un carico di vino «mafioso», guidati da un ammiraglio strampalato come Odoardo Spadaro… La pellicola, all’epoca tagliata da Franco Cristaldi, rimane per me uno dei migliori esempi della vostra commedia, un bello spaccato, dalle pieghe malinconiche, dell’Italia del tempo.

Altro film mitico del ’63, quasi già un «all-star» dell’ultimo Altman, un «M.A.S.H.» multiplo di macedonia bellica, Il giorno più corto di Sergio Corbucci, cui ora la Cinémathèque di Parigi dedicherà una retrospettiva.

Era uno dei vostri film-parodia, in voga in quegli anni. Il film-vittima di turno era Il giorno più lungo. Tredicesimo titolo di Franchi-Ingrassia, con Virna Lisi star femminile, vedeva 88 divi in parti minuscole, praticamente 88 camei (44+44, contro i 42 del film-cavia). Avevamo accettato tutti di partecipare a titolo gratuito, per scongiurare il fallimento della Titanus (dovuto ai nostri super-ingaggi precedenti?). Alla fine appare pure Totò, che stava girando Il monaco di Monza lì vicino: già vestito da frate, s’è messo in testa un elmetto piumato trasformandosi in inedito frate bersagliere.

In epilogo di carriera e dopo la malattia ha voluto girare, nel 2008, «Un homme et son chien», remake di «Umberto D.». Perché?

Sono da sempre riconoscente all’Italia, paese che considero mia seconda patria. Nel remake del film di De Sica, riflessione profonda sulla vecchiaia e la solitudine, ho voluto identificarmi nella storia d’un uomo aggrappato all’ultimo filo che gli resta, il suo cane. Ho accettato il film a una condizione: che fossi filmato com’ero, senza controfigura.

È allergico agli stuntmen fin dagli esordi. Strafottenza pure qui?

Sono un cascadeur nato. L’attività fisica, anche la più rischiosa, mi è sempre piaciuta. Da ragazzino, ero abituato a arrampicarmi sui tetti, a correre tra i comignoli, a filo di grondaia. Non ho mai avuto paura mentre mi davo a quelle acrobazie involontarie. E non ho mai avuto paura quando le ho ripetute nei film. Adesso, però, a ripensarci o a rivedermi, sì, mi viene un po’ di strizza…

È così che ha conquistato tutte le più belle attrici del pianeta? Cascadeur del cuore?
Non tutte! (risata). A Brigitte Bardot mi son limitato a strofinare i seni in La vérité. Sul set, è vero, sono stato fortunato: Claudia Cardinale in La viaccia, Gina Lollobrigida in Mare matto. Con Sophia Loren, durante il bacio in La ciociara, De Sica s’era addormentato ma non ne ho approfittato. Il «cut!», l’ho dato io.

E fuor di set ?

Mi son limitato a smentire il mio professore del Conservatoire d’art dramatique (dove mi son diplomato al secondo tentativo), un certo Dux, mio uccello del malaugurio : «Tanto, nessuna donna le cadrà mai tra le braccia». Perciò quando Ursula Andress «s’è sbagliata», ci siam fatti vedere insieme e gli ho detto: «Si fa quel che si può!».

È stato Godard la sua conquista più difficile?

No, mi ha cercato lui, per il suo primo corto e poi per À bout de souffle, che mi ha cambiato la vita, da giocherellone di Saint-Germain des Prés a icona Nouvelle Vague, scatenandomi addosso il cinema italiano. E pensare che, mentre giravo il film, ero sicuro che non sarebbe mai uscito: non c’era copione, si andava avanti per improvvisazioni. Non credevo molto nel film e neanche in me stesso. Perciò, negli anni Sessanta, non facevo che girare un film dopo l’altro : dopo, mi dicevo, non mi prendono più.

Per gli italiani, dopo «Borsalino» (1970), lei è indissociabile da Alain Delon: mai stati rivali?

No, solo in politica. Quando ci vediamo, siamo d’accordo di parlare di tutto, tranne che di destra e sinistra. Abbiamo esordito quasi insieme, nel ’58, in Sois belle et tais-toi di Marc Allegret. Poi, i soliti gossip. Edith Piaf, che dice: «Esco con Delon, ma torno a casa con Belmondo». E le gare di bellezza: Alain il bello, io il brutto che piace. O addirittura, il brutto più affascinante del cinema francese. Ogni volta rispondo: «Si fa quel che si può…».