Una trentina di volumi di poesie, saggi, critica d’arte, traduzioni (De Chirico, Rimbaud, Roussel), perfino il romanzo Un nido di ninnoli: A Nest of Ninnies (ma ninnies è un termine da bambini per una «femminuccia»)… John Ashbery, scomparso novantenne il 3 settembre nella sua casa presso New York, ha scritto e pubblicato tanto, e come un pittore ha avuto le sue fasi sotto un comune ombrello di surrealismo e svagatezza. Tutto poteva scriversi, dalle riflessioni più oscure su coscienza e arte alle frasi sentite per strada, lo slang americano, i modi di dire, che lo rendono spesso intraducibile. Incomprensibile? La sua è una musica a cui occorre abbandonarsi e che non va da nessuna parte. Poesia trovata, sempre però impeccabile nella forma. Il caos trova una illusoria fissità sulla pagina. C’è una componente autobiografica, ma come un’immagine che si intravede e scompare prima che si possa afferrare.

ECCO PER ESEMPIO La storia della mia vita, che comincia ricordando il fratellino morto di leucemia a dieci anni: «C’erano una volta due fratelli. / Poi ce n’era uno solo: io stesso. // Sono cresciuto molto in fretta / prima di imparare a guidare, / addirittura. Ed eccomi qui: uno sporco adulto. // Pensai di sviluppare interessi / a cui qualcuno potesse interessarsi. Niente da fare. // Divenni molto lacrimoso per quelli che parevano / i piacevoli primi anni. Via via / che invecchiavo, diventavo più generoso / rispetto ai miei pensieri e le mie idee, // pensando che fossero almeno buone come quelle di chiunque altro. / Poi una grande nuvola divoratrice // arrivò e indugiò all’orizzonte, bevendoselo / tutto, per quanto parve mesi e anni».
Una poesia (im)personale, chiara e sfuggente. L’emozione in Ashbery è sempre rattenuta, come in una conversazione rilassata in cui entrano citazioni e improvvise illuminazioni. Stralci di monologhi e conversazioni. L’intensità rumorosa della Poesia è evitata per principio. Questo può dare un senso di sazietà. Appunto come un pittore (forse tutti i poeti?) Ashbery scrive sempre la stessa poesia: letta una si son lette tutte. Ma ciascuno se ne spillerà una, magari ritagliata dal New Yorker, sopra la scrivania e ci troverà una fonte inesauribile di… linguaggio.
Ricordo una volta che Ashbery fu invitato dall’Istituto italiano di cultura di New York a leggere suoi versi insieme a Giovanni Raboni. Poca pubblicità, circa quindici persone nel pubblico per «il più grande poeta americano vivente». Un giovane di belle speranze introduce: «John Ashbery non ha bisogno di presentazioni. È da decenni che pubblica le sue raccolte di poesie, ed esse non mancano mai di deludere».

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SOLO ASHBERY e io siamo scoppiati in una risata a quel garbuglio logico (sfuggito sembra agli altri dodici astanti). A John sicuramente piaceva l’idea di deludere, immancabilmente… Certo, prende in contropiede. Si aspetta che uno stia al gioco. Avendo poi ottenuto tutti i riconoscimenti possibili in patria, in Francia, persino in Italia. Dove però forse non a caso le traduzioni scarseggiano dopo quella lontana di Aldo Busi del volume Autoritratto in uno specchio convesso, la cui poesia eponima (dedicata al Parmigianino) è anche la più famosa e meno caratteristica di Ashbery essendo quasi un lungo ragionamento compiuto. Raccomandabile anche la recente antologia Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, edita da Damiano Abeni e Moira Egan, ma ancora per un editore di nicchia (Sossella). Si sa, la poesia non si esporta, specie se come quella di Ashbery è tutta avvolta su se stessa, fatta di oggetti trovati, monocorde.

FORSE OCCORRE essere dentro a quella cultura e far parte del mondo circoscritto dei lettori di poesia, e di un certo tipo di poesia, per dialogare con Ashbery. Capire quel che lui voleva fare: scrivere delle frasi che come la musica non hanno mai un senso preciso, così che ognuno di noi possa trovarvi il senso che vuole, ma secondo un certo ritmo, una certa libertà. L’arte come regno della liberazione in quanto supremamente (seriamente) inutile. «Deve dare piacere», come dettava un capostipite di Ashbery, Wallace Stevens. Quello che apprende è appunto la gestione del trauma. Il giovane poeta, come appare da una biografia recente, visse con difficoltà l’omosessualità finché non trovò sé stesso negli anni parigini come critico d’arte. Prima di rientrare a New York accanto ai sodali O’Hara, Koch e Schuyler, festeggiato nella Factory di Warhol (lui che da giovane era stato benedetto da Auden).

1927-2017: tutto un mondo di poesia, nel quale Ashbery sta con gli astrattisti, fuggendo le tentazioni esistenziali e impegnate dei poeti confessionali Lowell e Bishop. Bambino incantato, Ashbery si aggira nei mercati delle pulci (attività preferita) e compone per tutta una vita i suoi sereni svagati imperscrutabili semplicissimi collages.

IL SUO ULTIMO LIBRO è Commozione degli uccelli (2016), e un brano della poesia eponima dice con la solita simpatica levata di spalle: «È bello essere moderni se lo si sopporta. / È come essere lasciati fuori nella pioggia, e arrivare / a capire che eri sempre così: moderno, / inzuppato, abbandonato, eppure con quella speciale intuizione / che ti fa vedere che non dovevi essere / nessun altro». Complessità e indovinelli della cultura del nostro tempo.