Giuseppe Gioachino Belli parte da Roma il 9 settembre del 1828 diretto a Milano, e «a la porta di Milano» giunge la mattina del 20 settembre, «alle 6 e tre quarti», come non manca di annotare nel Journal du Voyage de 1828. Durante i dodici giorni di viaggio, nelle ore di carrozza, tace. Verga qualche linea nelle pagine del taccuino, traccia lo schizzo d’una veduta, come accade durante una sosta al Passo del Furlo. Legge. Per lo più, direi, allorché i compagni di viaggio, i socii, come li chiama, inclinano al sonno interrompendo le loro ciarle. Ma, poiché gli intervalli della continua chiacchiera di quei viaggiatori son pochi, Belli, difeso dal suo silenzio, soprattutto ascolta.

Ascolta senza darlo a vedere, curioso, forse fingendo gli ottundimenti del dormiveglia, ogni tanto interrotto da qualche sobbalzo delle ruote. E poi, minuziosamente prende nota di quanto, tra le «sciocchezze de’ suoi soci», maggiormente lo colpisce: convincimenti e giudizi via via espressi e gli «spropositi» per come sono enunciati, per come sono detti e ripetuti. Quegli spropositi, «io sto in umore di godermeli», scrive alla moglie Mariuccia e la rende partecipe di alcune tra le più esilaranti di quelle tirate senza capo né coda.

Questa, ad esempio: «gli stregoni, le streghe, i maghi (anche quelli innocenti del lotto), i fattucchieri e simili gentilezze, furono tutti da Gesù Crocifisso accondannati in ne li nozzi di Canna e Gallilea dove fu fatto il Conciglio di trenta, indove Iddio disse che lui aveva creato Roma, la Francia, l’Angrinterra, e tutto il mondo là… nel mondo fin che ce n’è, per amallo e servillo in tutta un’internità e per questo Novè gli fece l’arca perché se salvassi dal deluvio d’acqua come fece quanno che vinne tutto quel malanno dal paradiso; e allora c’ereno l’astrigoni, che se so poi astrovati li libbri de maggìa sotto terra per opera del diavolo, chese voleva addifenne el tiritòlio del Regno suo, che il Signore ci addeliber’a tutti».

A questi sproloqui il Belli lungo i dodici giorni di viaggio ostenta una sua estraneità, ma non è difficile, al contrario, constatare la sua viva attrazione. Ne fanno fede le annotazioni del taccuino e, sotto spoglia epistolare, l’esercizio di scrittura che, come abbiam visto, registra le conversazioni ascoltate e le riporta parola per parola.

Si può affermare che Belli, per ottenere una restituzione scrupolosa ed esatta di quanto ascolta ed osserva, si disponga, nelle giornate del viaggio verso Milano, ad una sorta di tirocinio applicato a memorizzare, per dir così sul fatto, ogni frase e la sua pronuncia, a registrarne la dizione, a fissare le formulazioni entro le quali i costrutti discorsivi si muovono. Una resa aderente, restituita con minuzia. Sicché le parole dei socii con dovizia appuntate nelle pagine del Voyage e con profusione riportate nelle lettere, assumono una speciale rilevanza. Rilevanza specifica dico, e relativa alla preistoria de I Sonetti.
Alla data del settembre del 1828 Belli non ha scritto che sette sonetti in romanesco. Due d’incerta data, intorno al 1820. Due nel 1827. E tre, uno il 4 e due il 7 agosto del 1828, e dunque un mese prima d’intraprendere questo suo viaggio alla volta di Milano. Ad eccezione di uno, Er pennacchio del 7 agosto, tutti sono rifiutati dall’autore che bifferà gli autografi con una barra e un no. Nel corso del seguente anno 1829 Belli compone quattro sonetti. Sicché non v’ha dubbio che, proprio in questo torno di mesi, vada elaborando Belli la sua poetica, ne tenti le prime prove, ne venga decantando i presupposti e si dia a delinearne gli appropriati principi.

Ricordo solo che nell’Introduzione a I Sonetti stesa nel 1832 Belli stabilisce una connessione tra sguardo e ascolto. Inerenza tale da muovere il poeta a un procedimento che, mentre si dipana nell’ordine percettivo, innesca simultaneamente un processo d’ordine intellettuale. La parola, la voce e il volto di chi la pronuncia e la composizione della frase trascritta si fondono fino ad assumere la caratura propria del ritratto, cioè l’atto del cavar fuori e del recingere ciò che è presente e sta innanzi al fine di instaurare un suo significato formalmente riconoscibile.