Calciatori privilegiati, in grado di pagare di più in tasse, soprattutto nell’era dell’inflazione che divora il potere d’acquisto dei salari più bassi. Se il pallone spesso sceglie di mettersi all’ala destra sui problemi reali delle persone – l’ultimo esempio sono i Mondiali in Qatar, passati sostanzialmente sottotraccia sulla questione dei diritti umani e civili violati – ci sono delle eccezioni da raccontare.

Calcio spagnolo
Hector Bellerín è un difensore di lungo corso nel calcio europeo che conta, tra Arsenal, Barcellona e un altro paio di club in Spagna. Si è sempre percepito, sentito diverso dai compagni incontrati durante la carriera. Allenamenti, trasferte, partite in stadi meravigliosi, la possibilità di giocare per diversi anni ad alti livelli. Insomma, la vita del calciatore di successo, che, senza dimenticare i sacrifici di anni e che in pochi arrivano alla meta, è assai meno complessa rispetto a quella di chi vede il suo stipendio divorato dal caro energia, dal caro delle materie prime, almeno nell’era della crisi economica.

«Ho firmato per 500 mila euro per il Barcellona, ma a me va bene così, la cosa che più preme non è guadagnare molto ma giocare ai massimi livelli. E mi sento molto fortunato sia perché lo faccio da anni sia perché mi trovo in condizioni economiche tali da non avere problemi», ha detto recentemente il calciatore spagnolo.

Bellerín incarna la normalità nel senso più nobile del termine, la semplicità di una vita che volta alle spalle al mondo del gossip e a tutto ciò che fa parte dello «spettacolo calcio», spesso scollegato rispetto a quanto realmente accade lontano dal rettangolo verde. Un orientamento, quello di Bellerín, in linea con la linea tenuta in questi mesi in Spagna dal governo Sanchez, che a ottobre ha varato una manovra di governo con meno tasse per i redditi più bassi e con un contributo di solidarietà per i grandi patrimoni, che sarà valido per il 2023 e per il 2024.

«I calciatori sono le persone che dovrebbero pagare più tasse – ha aggiunto Bellerín -–, siamo dei privilegiati, poco umani, quasi viviamo in una bolla. Vengo da una famiglia dove sono sempre stati fatti grandi sacrifici. E continuo a vivere allo stesso modo. Con quelli che sono i nostri guadagni credo non si debba pensare solo a noi stessi ma anche a fare del bene in società, dove ci sono situazioni molto precarie. Mai dimenticare da dove veniamo». Il riferimento alla bolla non è affatto casuale. Bellerín da anni ha scelto di assumere posizioni scomode, pubbliche, su temi che dividono. Sui quali il calcio mostra la corda rispetto ad altre discipline.

Il coming out
Due anni fa disse che il calcio non era pronto ad affrontare il tema dell’omosessualità degli atleti. Non ci ha mai ripensato. «Non credo che il calcio sia pronto. Negli spogliatoi se ne parla, ma non ho mai sentito nessuno che abbia detto di essere gay. E se qualcuno lo facesse, i compagni di squadra non direbbero nulla e lo farebbero per proteggerlo. È impossibile che un calciatore decida di annunciare la sua omosessualità. Alcuni tifosi non sono preparati». Così spiegò Bellerín al londinese Times. Bellerín, nella stessa intervista, raccontò di esser stato apostrofato come «lesbica» per la fluente chioma, oltre a una serie di insulti omofobi, sia negli stadi che sui social network. Lo spagnolo andò in appoggio a un altro calciatore senza peli sulla lingua, il tedesco Philipp Lahm, che in un libro addirittura sconsigliava ai colleghi calciatori di fare coming-out. Sono stati pochi, pochissimi finora i casi di calciatori che hanno reso noto il loro orientamento sessuale. Qualche caso negli Stati Uniti, in Australia c’è stato Josh Cavallo, un nazionale ancora in attività. Altrove non se ne parla. Eppure ci sono, come è ovvio, naturale che sia.

Quasi tutti i coming-out sono arrivati a carriera conclusa, poiché gli atleti temevano di essere travolti dall’onda di un calcio arcaico, maschilista, che ancora non ammette a se stesso l’esistenza di calciatori omosessuali. Il terzino della nazionale spagnola, tra l’altro, è uno dei volti di Rainbow Laces, campagna autunnale nel calcio inglese organizzata dall’associazione Stonewall contro le discriminazioni sessuali e le persecuzioni della comunità lgbtq+ che chiede ai calciatori di indossare i lacci color arcobaleno.

Sempre Stonewall ha mostrato i risultati di una ricerca secondo la quale la percentuale di appassionati di sport che pensano che i commenti omofobi siano accettabili è scesa dal 25% nel 2017 al 14% nel 2022. L’indagine ha svelato anche che solo il 40% pensa che nello sport siano accettati uomini gay e bisessuali, il 43% che sia favorevole per donne lesbiche e bisessuali e solo il 29% che l’ambiente sportivo sia accogliente per le persone transessuali.

Ma Bellerin ha le idee chiare – ed evolute – rispetto alla maggior parte dei colleghi anche sul futuro sostenibile del pianeta. Tre anni fa è diventato azionista del Forest Green Rovers, conosciuto come l’unico club vegano al mondo. Il Forest lavora da anni sul menù vegani allo stadio, sull’utilizzo del legno riciclato per il nuovo impianto di gioco da cinquemila posti, l’Eco Park, incastonato in un’area verde di 1700 metri quadrati, con stazioni di ricarica per i veicoli elettrici, alberi e siepi piantati per favorire la biodiversità. Due anni fa è stata la volta delle magliette da gioco ricavate dall’uso del bambù, qualche mese dopo addirittura l’idea di una maglia da gioco ottenuta con il riciclo dei fondi del caffè e di bottiglie di plastica. È stato un visionario il proprietario del Forest, Dale Vince, imprenditore nel settore ecologico, a costruire una società dove tutto è sostenibile, dal cibo consumato allo stadio al riciclo dell’acqua, il pratico organico, i pannelli solari sul tetto dello stadio, fino alle divise degli atleti. Lo stesso Bellerín segue una dieta vegana ed è un ambientalista attivo, al punto che ai tempi dell’Arsenal annunciò di impegnarsi a piantare tremila nuovi alberi a ogni vittoria della squadra londinese.