Cultura

bell hooks, con la lotta di classe come presupposto

bell hooks, con la lotta di classe come presuppostoParticolare da un’opera di Yung Cheng Lin

Percorsi «Il femminismo è per tutti», a cura di Maria Nadotti, per Tamu edizioni. Non esiste un orientamento sessuale più liberatorio degli altri, il problema è sempre il rapporto col potere. A ventun’anni dalla prima edizione, una traduzione arrivata poche settimane prima della morte dell’autrice. Per evitare torsioni elitarie, la teoria deve afferrare la realtà sociale complessiva. Lo sguardo proposto non è dogmatico ma «visionario», prefigura possibilità non ancora attuate

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 13 gennaio 2022

Il femminismo è per tutti di bell hooks (Tamu Edizioni, pp. 203, euro 14) è uscito nella sua traduzione italiana a cura di Maria Nadotti a ventun anni dalla sua prima edizione – di altre opere di hooks il manifesto si è occupato di recente, ndr – e poche settimane prima della morte della sua autrice. Nelle sue pagine, bell hooks ripensa il passato del movimento femminista non per onorare una tradizione, ma per cogliere un’occasione: «la teoria femminista rivoluzionaria va di continuo elaborata e rielaborata perché si rivolga a noi, nel nostro presente».

Il presente è quindi il tempo del femminismo, che deve essere sempre rinnovato come «movimento di massa» per riuscire a rovesciare il «patriarcato capitalista suprematista bianco». Il femminismo è per tutti non è, dunque, un bilancio, ma un’apertura. Dobbiamo domandarci chi sono i tutti del titolo, che in italiano rimanda a un universale maschile che ingloba le differenze, mentre in inglese è un everybody in cui il riferimento al corpo le porta in primo piano, insieme alle condizioni sociali in cui il corpo è situato. Quei tutti sono donne bianche e nere, povere e lavoratrici, migranti, bambine e bambini, omosessuali ed eterosessuali e sono anche gli uomini, che il femminismo chiama a una presa di posizione.

L’affermazione «il femminismo è per tutti» ci spinge a chiederci come sia possibile produrre un discorso capace di «avvicinare» a questa politica appassionata chi ancora non la conosce o non la pratica, e come possa questa politica cambiare di segno per trasformare una realtà la cui complessità non permette soluzioni semplici.

C’È UN PASSAGGIO che per bell hooks è fondamentale, il salto dall’autocoscienza all’istituzione dei women’s studies nelle università nordamericane tra gli anni ’70 e gli anni ’80 del Novecento. Se è vero che «tutto ciò che facciamo nella vita si fonda sulla teoria», allora questo passaggio non va letto soltanto come un evento remoto, ma pone il problema di produrre un discorso espansivo capace di «convertire» un numero crescente di donne e uomini al femminismo. Ritroviamo in queste pagine la critica ai women’s studies che torna in molte parti dell’opera di bell hooks, che riconosce tanto l’importanza politica della battaglia per ridefinire i programmi formativi quanto la torsione elitaria che hanno impresso al pensiero femminista.

Se il femminismo deve e può essere per tutti, la teoria che produce ha bisogno di essere realistica, ovvero di afferrare la realtà sociale complessiva in cui operano sessismo, razzismo e sfruttamento parlando direttamente a chi ne fa esperienza.

Secondo bell hooks, la politica femminista «sta perdendo lo slancio perché il movimento femminista ha perso di vista le definizioni chiare» che sono fondamentali per radicarlo nella realtà. Va letta in questo senso l’attenzione con cui sostiene che è necessario parlare di «violenza patriarcale» anziché soltanto «domestica», perché solo la prima definizione rende visibile il nesso tra la violenza in famiglia e il dominio maschile nella società, che dà forma a ogni relazione secondo le logiche della gerarchia e del possesso. Il dominio maschile si legittima nella mente di chi lo pratica come di chi lo subisce attraverso il «sessismo interiorizzato».

PER QUESTO È IMPORTANTE la riscrittura della celebre frase di Simone de Beauvoir, che per bell hooks suona: «femministe non si nasce, lo si diventa». Il fatto di essere «vittime di un sistema che sfrutta o opprime non significa che capiamo perché esso è in atto o come fare a cambiarlo». Non è vero che le donne sono essenzialmente non violente e non è vero che tutti gli uomini sono nemici delle donne, al punto che bell hooks parla della possibilità di una «maschilità femminista», che si dà quando gli uomini contestano il dominio e il privilegio che incarnano.

La lettura di bell hooks anticipa l’importanza e ribadisce l’urgenza del movimento transfemminista globale contro la violenza patriarcale, e si rivela quanto mai produttiva oggi, quando una parte del femminismo che si definisce radicale ne sta riproponendo una visione identitaria, rinsaldando quel determinismo biologico che le donne hanno contestato in massa. Per bell hooks, il femminismo non può essere una politica identitaria perché impone di rompere con la propria identità marchiata dal sessismo prendendo una posizione: «identificarsi con le donne» è la formula che usa, facendo dell’identità non un presupposto ma un effetto dello schieramento politico.

LA SUA RICOSTRUZIONE del dibattito del femminismo storico sulla sessualità diventa feconda proprio in questa prospettiva: per un momento alcune femministe hanno indicato il lesbismo come la pratica più radicale di liberazione, ma il confronto e lo scontro nel movimento femminista su omosessualità ed eterosessualità hanno permesso di comprendere che in entrambi i casi il problema è il rapporto con il potere. Per bell hooks non esiste un orientamento sessuale più liberatorio degli altri, né il femminismo può pretendere di imporlo normativamente senza perdere il suo radicamento nella complessità delle esperienze. Qualunque tipo di sessualità può essere libera a condizione di diventare l’occasione per una critica pratica dei rapporti sociali di potere. Si tratta quindi di rivendicare la libertà sessuale mettendo contemporaneamente in campo quella che lei stessa chiama «lotta di classe femminista», a partire dal riconoscimento che non tutte le donne possono praticarla allo stesso modo, soprattutto se aborto e contraccettivi non sono accessibili se non a caro prezzo.

SONO STATE LE LESBICHE, dice bell hooks, a renderlo evidente per prime: in una società in cui la dipendenza economica da un uomo era la norma per le donne, essere lesbiche le esponeva maggiormente anche alla povertà. La libertà sessuale può essere sovversiva quando la sua pratica e la sua rivendicazione investono l’insieme delle condizioni sociali che la ostacolano. Questa comprensione materialistica e sociale della libertà sessuale mostra quale sia, oggi, la posta in gioco politica della lotta contro la sua repressione, che non riguarda soltanto le scelte soggettive, ma l’intera organizzazione della società.

Per questo il femminismo di bell hooks non può essere indifferente ai rapporti di classe e al razzismo. Il femminismo è diventato «elitario» quando le femministe bianche hanno ridotto le loro rivendicazioni a un’uguaglianza nel lavoro, cercando migliori remunerazioni e possibilità di carriera, e hanno rinunciato a prendere parola sul contrattacco patriarcale e razzista che ha fatto strada negli Stati Uniti allo smantellamento del welfare e alla società neoliberale.

SE NEGA lo «sfruttamento sessista», se non vede che il lavoro non produce uguaglianza ma disuguaglianza, che per la maggior parte delle donne non promette carriera o redditi migliori ma soltanto il dispotismo del salario, il femminismo diventa la difesa di un potere di classe e del privilegio della pelle bianca. Se non riconosce che la fine del welfare e le politiche migratorie hanno intensificato lo sfruttamento, il femminismo si riduce a uno «stile di vita» svuotato di ogni carica politica. Per bell hooks non si tratta di negare le conquiste ottenute dal «femminismo riformista», ma di denunciarne continuamente l’insufficienza per affermare che non c’è liberazione possibile se l’ascesa di alcune si compie sulle spalle di altre. Oggi dovremmo dire che non sarà una «strategia per la parità di genere» a liberare le donne dalla subordinazione e dallo sfruttamento, tanto più se il razzismo ne costituisce l’infrastruttura nascosta.

IL FEMMINISMO PROPOSTO da bell hooks in queste pagine vuole trasformare ogni ambito dell’esperienza in un campo di battaglia per la liberazione, vuole insinuarsi dappertutto andando «porta a porta» alla ricerca di nuovi «adepti».

Il lessico religioso può portare a pensare che Il femminismo è per tutti sia una specie di catechismo, ma in queste pagine non c’è una dottrina, c’è una storia fatta di problemi e possibilità. Il femminismo che propone bell hooks non è dogmatico ma «visionario», perché in virtù del suo realismo si sforza di prefigurare possibilità non ancora attuate. È «globale», perché ambisce a comprendere in che modo sono legate le diverse condizioni materiali in cui si trovano donne che vivono in ogni parte del mondo senza pretendere che alcune possano salvare le altre, offrendo ricette di liberazione che il capitale transnazionale trasforma in un «lusso». È quanto mai necessario, mentre la ricostruzione post-pandemica si configura come un contrattacco patriarcale globale. Ed è un femminismo che va alimentato verso il prossimo 8 marzo, quando il movimento transfemminista globale avrà ancora una volta l’occasione di presentarsi in massa mostrando che il futuro è la possibilità attuale di un presente che altrimenti ci appare immutabile.

La versione integrale di questa recensione è pubblicata su www.connessioniprecarie.org

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