L’appuntamento è all’Hotel Savoy, il centro della vecchia Berlino ovest laddove prima che il Muro si sbriciolasse e nello spazio rimasto vuoto lungo i suoi confini sorgesse la nuova città della riunificazione, tutto avveniva. Lui ci va sempre, è una questione sentimentale e insieme di insofferenza verso gli edifici agglomerati intorno a Potsdamer Platz. Di fronte all’albergo c’è il Delphi, la storica sede del Forum, è lì che durante la Berlinale di venticinque anni fa Béla Tarr ha presentato per la prima volta al mondo Satantango (1994), un film che ha scompigliato le regole del cinema contemporaneo rendendo il suo autore un riferimento.

Béla Tarr era già conosciuto, aveva girato dei cortometraggi, il primo, Family Nest nel 1977, quando era alla scuola di cinema di Budapest da cui però si era allontanato presto, insofferente ai dogmi imposti dal regime.

Poi erano arrivati Almanac of Fall (1985) e Perdizione (1988), ma quelle oltre sette ore di bianco e nero, dal romanzo di László Krasznahorkai (edito in Italia da Bompiani, 2016) in cui si racconta l’apocalisse di una comunità di agricoltori dopo la fine del comunismo, reinventano negli occhi dello spettatore cinematografico il senso del tempo e dello spazio – «Non possiamo identificarci con i loro sentimenti. Eppure, possiamo penetrare qualcosa di più essenziale, la durata stessa, nel cuore della quale le cose li colpiscono e li impregnano, la sofferenza della ripetizione, il senso di un’altra vita, la dignità profusa a perseguirne il sogno e a sopportare il fallimento di questo sogno», Jacques Rancière, Béla Tarr. Il tempo del dopo Bietti editore.

L’OCCASIONE del nostro incontro è stata il restauro di Satantango, riproposto in chiusura del Forum alla scorsa Berlinale, e da allora in giro nel mondo. Un lavoro importante per mantenere viva la memoria del cinema, realizzato grazie a Arbelos Films in 4k a partire dal 35 millimetri originale insieme allo stesso Béla Tarr che, mi dice, ne ha seguito ogni passaggio.

Tra i materiali messi insieme per l’occasione c’è una foto del ’94, che lo mostra sorridente mentre risponde alle domande del pubblico di Berlino.

A un certo punto qualcuno gli chiede se per lui l’aspetto «meta-cinematografico« è più importante delle immagini che racchiudono le persone e il loro universo.

Risposta:«No, non è così. La vita è la cosa più importante per noi e i film ne sono parte, non possiamo separarli. Lo stesso vale per il mondo che ci circonda: la realtà del tuo Paese, che cosa vediamo nelle strade, come ci appaiono i volti della gente. Si cerca qualcosa che rifletta quello che viviamo ogni giorno, non è una questione di filosofia o di ideologia, non c’è un atto di creazione che segue delle formule: ci sono solo dei sentimenti, procediamo coi sensi tattili delle nostre emozioni, e uno di questi è la macchina da presa».

E oggi, gli chiedo, cosa succede oggi? Perché nel frattempo Béla Tarr ha smesso di fare cinema, Il cavallo di Torino (2011) annunciato da lui stesso come il capitolo finale della propria filmografia è diventato davvero l’ultimo e da lì, con una fermezza non comune, non è tornato indietro. «Non mi domandare perché, che lo sai» mi dice. E aggiunge: «Dopo Il cavallo di Torino sentivo di non avere più nulla da dire col cinema». Può darsi. Di certo c’è quella vita, la fatica snervante a ogni film attraversato da catastrofi, accidenti, rotture, controversie legali, accuse, amarezze.

E poi c’è l’Ungheria di Orban, per uno come Tarr sempre in conflitto coi poteri è impossibile starci, ancora di più creare qualcosa di fronte a leggi pensate per soffocare libertà di espressione e indipendenza. «Sono diventato più vecchio ma sono sempre uguale all’anarchico che non si cura delle regole» dice ancora.

Infatti è scappato a Sarajevo, dove ha aperto una scuola per giovani cineasti provenienti da tutto il mondo. E ha iniziato a lavorare con l’arte visiva, mostre, installazioni, progetti multimediali come il prossimo Missing People che sarà presentato in giugno a Vienna all’interno del Wiener Festwochen (10 maggio-16 giugno).

«Satantango», che impressione ti ha fatto rivederlo, lavorarci per il restauro?
Amo questo film oggi come allora, non ho mai considerato qualcosa finito se non mi appare perfetto. Forse questo film non è finito – nel senso tradizionale – ma non ne cambierei neppure un istante. E se allora avessi pensato troppo alle regole da seguire non lo avrei mai girato! Del resto sono sempre stato un outsider, qualcuno fuori dal sistema. Nel mio lavoro di regista il passaggio più importante per andare avanti è sempre stato prima capire il film, poi il linguaggio che gli corrisponde. Perdizione era stato presentato al festival di Berlino ma in Ungheria lo avevano odiato tutti. I politici mi avevano detto che non avrei più potuto fare film in Ungheria. Così ci siamo trasferiti a Berlino, e mentre eravamo lì è caduto il muro.

Dopo cosa è successo?
Un amico mi aveva fatto leggere Satantango, l’ho amato subito moltissimo. Sono tornato in Ungheria, ho incontrato il suo autore, László Krasznahorkai, siamo diventati amici. Il film mantiene la struttura del romanzo, la suddivisione in capitoli e molto altro: come il tango va sei passi avanti e sei passi indietro. Non lo considero però una adattamento come non lo è nessuno dei miei film perché non è possibile. Il romanzo ha raccontato quella storia in un perfetto linguaggio letterario, io dovevo trovare la stessa aderenza ma con il linguaggio del cinema. Per due anni abbiamo dormito in posti orribili, mangiato malissimo, e quando si è compiuta un’ osmosi con quella realtà ho potuto filmarla, sono potuto tornare al racconto e al suo «adattamento», a un linguaggio che teneva tutto insieme.

L’origine letteraria, condivisa dai tuoi film, è una sfida che sembra però piacerti.

Ricordo che il figlio di Simenon mi ha detto che The Man from London (2007) era il miglior Simenon che avesse mai visto, ma io avevo distrutto il libro. Anche in quel caso non era l’adattamento che mi interessava, avevo letto The Man from London vent’anni prima, ne ricordavo le atmosfere, certe suggestioni, la figura di un uomo sui cinquant’anni con un’esistenza noiosa, senza vie di fuga. Sta lì solo, chiuso in una gabbia durante la notte mentre tutti gli altri dormono Era questa solitudine che volevo tirare fuori, e cosa accade quando qualcuno come lui vede all’improvviso davanti a sé la possibilità di cambiare vita. Dopo quel film avevo già deciso di smettere. Ma anni prima insieme a Laszlo avevamo partecipato a una lettura a teatro, lui aveva raccontato l’aneddoto del cavallo di Nietzsche, e ci eravamo chiesti spesso cosa poteva essere successo con quel cavallo. Perciò ho girato Il cavallo di Torino, era come se avessi un debito nei confronti di Laszlo, sapevo però che sarebbe stata l’ultima volta dietro a una macchina da presa.

Il progetto a cui stai lavorando per il Wiener Festwochen si chiama «Missing People». Cosa sarà?
Coinvolge molte persone di diverse nazionalità e alcuni miei storici collaboratori come Fred Keleman e Mihaly Vig. Unisce cinema, teatro, installazione, è un esperimento che mette al centro la dignità dell’essere umano e al tempo stesso spinge verso nuove direzioni quanto ho fatto nella mostra Till the End of the World at the Eye Film, a Amsterdam nel 2017.

Tra «Il cavallo di Torino» e il lavoro espositivo c’è stata l’esperienza della Factory a Sarajevo.
È strano, non ho mai creduto nella scuola e ne ho fondata una. Penso però che per un giovane filmmaker quella situazione ha creato occasioni di incontro importanti. Io ho cercato di procedere nella direzione opposta a quella delle scuole dove vogliono rendere tutti uguali frustrando la libertà creativa di chi non segue le loro regole. Ognuno è diverso, da noi i ragazzi arrivavano da tutto il mondo, la giovane giapponese aveva un background che non era lo stesso del ragazzo portoghese. L’obiettivo per me era rispettare le differenze per scoprire come metterle in pratica. I ragazzi sapevano che non volevo educarli, la sola cosa che potevo dirgli è che il mondo è grande e che dobbiamo muoverci in libertà. Se all’inizio non sanno cosa fare devi essere lì, devi dirgli di non rinunciare, senza interferire però. Credo nelle persone adulte e nella loro capacità di scegliere anche se per arrivarci può servire del tempo.