«Facendo parte di questo mondo vedi alcune cose, le trasformi dentro te stesso e poi provi a condividerle con altre persone. Il film deve essere personale e onesto. Questo è tutto». Così il grande regista ungherese Béla Tarr ha riassunto il senso del fare cinema durante la masterclass che ha tenuto nell’ambito del neonato festival del cinema di Villa Medici a Roma, dove era anche a capo della giuria. L’incontro è stato un viaggio attraverso la visione e le tecniche di lavoro che hanno permesso a capolavori come Perdizione e Satantango di venire alla luce. La prossima tappa di questo passaggio in Italia di Béla Tarr è prevista giovedì al Toko Film Festival di Sala Consilina presso il Cinema Adriano. Un’altra occasione per tornare su quei lavori unici, dall’enorme valenza per la storia del cinema degli ultimi decenni.

IL REGISTA ha subito disegnato uno spartiacque rispetto a ciò che si vede abitualmente sugli schermi: «Trascorriamo la nostra esistenza nel tempo e nello spazio, ma se si va al cinema la maggior parte dei registi ignora queste due categorie. Le logiche dei film sono sempre molto semplici: azione, taglio, azione. Semplice storytelling. Ma io non credo che questo sia il cinema, per me è tempo, spazio, volti, ritmo e qualcos’altro. Questo qualcos’altro è ciò che tu puoi aggiungere in quanto persona». A proposito delle motivazioni personali Béla Tarr ricorda che quando a ventidue anni, nel ’79, girò il primo film Nido familiare non era mai stato a nessuna scuola di cinema, fu la sensibilità per l’ingiustizia sociale a spingerlo: «Ero molto arrabbiato e volevo cambiare il mondo, la camera era solo uno strumento per farlo».

Nel corso dell’incontro si sono poi approfonditi i punti cardine del lavoro del regista, a partire dal rapporto con lo scrittore László Krasznahorkai, i cui libri hanno ispirato Satantango e Le armonie di Werckmeister. «Non mi è mai interessato fare degli adattamenti, da un libro bisogna poi tornare alla realtà perché la letteratura è un linguaggio totalmente diverso dal cinema». Da questa differenziazione nasce il rifiuto dei copioni, utilizzati unicamente per «le banche e i finanziamenti» anche perché, come ricorda più volte il regista, ciò che conta è creare una situazione ed essere poi in grado di immergercisi. Bisognerà allora innanzitutto immaginare le scene e non le parole; a questo proposito Béla Tarr ci mostra il suo segreto ovvero dei cartellini bianchi dove, con uno o due termini, vengono riassunte tutte le scene di un film: 39 cartellini per 39 scene.

INSIEME alla minuziosa ricerca delle giuste location, è con l’approccio agli attori che emerge tutta l’originalità del regista, la profondità del suo sguardo: «Non scelgo attori ma personalità. Per me è molto più importante come reagiscono nella vita ordinaria piuttosto che la loro tecnica attoriale. Se sei una professionista come Tilda Swinton o qualcuno del negozio accanto per me è lo stesso. Certo ci vuole molto lavoro, bisogna passare del tempo insieme prima che loro si fidino e si aprano, mostrandosi nudi».
Dopo aver risposto tra il serio e il faceto sui long takes — «lungo e corto sono misure relative» — si affronta il delicato tema dell’interruzione che Béla Tarr ha decretato nei confronti della propria produzione cinematografica con Il cavallo di Torino nel 2011. «Bisogna andare fino in fondo e poi fermarsi perché non ci sono ragioni per ripetersi, rischiando di annoiare. Ho sempre voluto smuovere e scuotere, forse ora non posso più».
Questa cesura non significa comunque che il regista si sia «ritirato», sono stati diversi i progetti degli ultimi anni tra cui una Film school a Sarajevo: «È stata una bellissima esperienza con giovani registi provenienti da tutto il mondo. Abbiamo sperimentato un nuovo modo di educare al cinema, il mio slogan era no education just liberation». Béla Tarr ha ancora moltissimo da insegnarci, dentro e fuori dagli schermi.el