La protesta scatta al termine delle preghiere di mezzogiorno, sulla strada principale che attraversa Beita. I giovani scattano come molle, issando le bandiere palestinesi, e corrono verso l’uscita est dal villaggio, diretti all’avamposto coloniale israeliano di Eviatar, sul Monte Sabih. Da giorni quell’uscita è sbarrata. Per raggiungere Beita si deve percorre una strada dissestata che passa per il vicino Odala. La risposta dei militari è immediata. Sparano una ventina di candelotti lacrimogeni, davanti e dietro al corteo che in pochi attimi resta imprigionato in una nuvola di fumo denso che toglie il respiro a tutti: dimostranti, passanti, giornalisti. Si salvano solo quei quattro o cinque che indossano le maschere antigas. «Prendi questo, passalo sul viso e copriti il naso», ci dice un uomo sulla cinquantina porgendoci un fazzoletto bagnato con del profumo. Fa altrettanto con gli altri intorno a lui. Un metodo popolare che aiuta a calmare l’oppressione al naso, la gola e il petto causata dal gas.

[object Object]

Più avanti i giovani sono pronti a un nuovo scatto. «Takbir» urla uno di loro. «Dio è il più grande», rispondono gli altri. E avanzano correndo verso i soldati. Oltre a lacrimogeni, i soldati sparano proiettili rivestiti di gomma. L’urlo delle sirene delle ambulanze della Mezzaluna rossa si avvicina poco dopo. Gli automezzi a tutta velocità raggiungono i feriti. Cinque, si saprà poco dopo, non gravi. Intossicati dai gas un’altra ventina di palestinesi. La protesta si riaccende dopo una decina di minuti. I ragazzi, stavolta a passo lento, si avviano nuovamente ai militari israeliani. «Guardate, lì in alto» urla qualcuno. Il naso di tutti è puntato verso il cielo. Dall’alto un drone sgancia lacrimogeni sui manifestanti, è troppo tardi per cercare scampo ai gas, tutta la zona è di nuovo chiusa in una nuvola di fumo. I fazzoletti bagnati e profumati anche stavolta aiutano chi ha inalato il gas. Colonne di fumo si alzano nelle campagne, negli uliveti e frutteti. Da lontano giunge il crepitio della sterpaglia incendiata dai lacrimogeni. Scende la calma, rotta a tratti dall’arrivo delle ambulanze e di un automezzo dei vigili del fuoco. Le proteste riprenderanno al tramonto, forse durante la notte.

«È così da maggio, non ci arrendiamo, andiamo avanti», ci dice Farid Hamayel «oggi (ieri) non ci sono stati feriti gravi ma i soldati (israeliani) sparano anche proiettili veri. Mohammed, il figlio di un mio cugino è stato ucciso una settimana fa, era un ragazzino, aveva solo 15 anni». Beita piange già quattro morti, l’ultimo a inizio settimana, Ahmed Shamsa, anche lui quindicenne. «Vogliono toglierci tutto» prosegue Hamayel, «i coloni hanno occupato le terre del nostro villaggio, come faremo a vivere senza i frutteti e le olive? Non abbiamo scelta, andremo avanti». Dopo gli accordi di Oslo II, nel 1995, l’11% delle terre di Beita fu classificato come parte dell’Area C, corrispondente al 60% della Cisgiordania controllato totalmente dall’esercito israeliano. Uno status provvisorio destinato a durare fino al 1999, quando negoziati finali avrebbero dovuto sancire, nelle speranze palestinesi, la nascita dello Stato di Palestina in Cisgiordania, Gaza con capitale Gerusalemme Est. Non è mai accaduto e dopo 22 anni la pressione delle colonie israeliane si è fatta insostenibile sui villaggi palestinesi.

[object Object]

Eviatar è illegale per la legge internazionale e anche per quella israeliana, non ha mai ricevuto l’autorizzazione dell’esercito. Sorto su terreni di Beita, Qabalan e Yatma, dovrebbe essere evacuato. I coloni però sanno che più svilupperanno e popoleranno l’avamposto e più facilmente il governo lo riconoscerà. E lo descrivono come la «risposta giusta» all’uccisione, all’inizio di maggio, di uno studente religioso, Yehuda Guetta. Negli ultimi giorni hanno portato al sito roulotte e case mobili montate peraltro con l’aiuto di soldati. Ci vivono già 42 famiglie, ha un asilo e una scuola religiosa, e secondo una portavoce dei coloni, Daniella Weiss, si espanderà su 60 ettari di terra. Zvi Sukkot, attivista del partito di estrema destra Otzma Yehudit, ha raccolto per Eviatar donazioni per circa 370.000 dollari. Lunedì varie organizzazioni di destra e il movimento dei coloni pianificano blocchi stradali in vari punti della Cisgiordania per protestare contro «le costruzioni illegali dei palestinesi» che, affermano, «rubano terre a Israele». Di ben altra opinione è Alex Fishman, giovane ebreo italiano, che con un manipolo di attivisti di Anarchici contro il muro è arrivato a Beita a sostegno delle ragioni palestinesi. «Ciò che sta avvenendo è vergognoso» afferma «queste persone (i palestinesi di Beita, ndr) chiedono solo di vivere la loro vita senza problemi e ora questo nuovo insediamento viene fondato sulle loro teste nonostante la promessa (del ministro della difesa) Benny Gantz di fermare la sua costruzione. E invece abbiamo video di soldati che aiutano i coloni. Sono stati uccisi due ragazzi palestinesi e non capisco come il mondo faccia a stare in silenzio. Siamo di fronte a qualcosa di disumano».

Quella Beita è una storia di case demolite, punizioni, arresti, detenzioni. Ogni famiglia potrebbe raccontare la sua vicenda. Non abitano più nel villaggio Wael Jawda e suo cugino Usama Jawda. Un venerdì pomeriggio del febbraio 1988 furono filmati mentre venivano brutalmente picchiati da quattro soldati israeliani intenzionati a spezzargli le braccia, perché avevano lanciato pietre contro le jeep militari. Scene della prima Intifada palestinese contro l’occupazione militare che non si erano mai viste prima di allora e che sdegnarono il mondo. Si disse che ad ordinare quella terribile punizione fosse stato proprio il ministro della difesa Yitzhak Rabin. Ma non si seppe più nulla, finì tutto nell’oblio. «Uccidono i nostri ragazzi, ci prendono le terre e dov’è il mondo? Voi giornalisti venite qui per cosa? Nessuno sa ciò che subiamo, il mondo tace», protesta Farid Hamayel guardandomi dritto negli occhi.