In Libano cresce l’opposizione alla presenza dei profughi siriani. Commenti razzisti e xenofobi, spesso molti volgari, ad esempio hanno accompagnato sui social la recente evacuazione di dozzine di rifugiati da un edificio di Al-Msaytbeh, nell’area centrale di Beirut. «Andate via, tornate a casa vostra, qui non vi vogliamo», è stato il più leggero. Anche i circa 400mila profughi palestinesi, discendenti delle vittime della Nakba nel 1948, sono di nuovo sulla bocca di tutti a causa dell’Accordo del secolo, il «piano di pace» (non ancora presentato) dell’Amministrazione Trump che nega ai rifugiati giunti dalla Palestina il diritto al ritorno nella loro terra d’origine, al quale si oppone Israele.

Governo e autorità locali perciò non fanno fatica ad approvare provvedimenti che puntano a rispedire a casa i siriani e, quando e se sarà possibile, i palestinesi. Inutili sono le proteste delle agenzie e delle ong internazionali che assistono i profughi. Ad aprile è stato intimato ai rifugiati siriani che si trovano nell’area di Arsal, nella valle della Bekaa, di demolire entro il 9 giugno ogni tipo di struttura costruita non con assi di legno o teli di plastica. Dopo quella data tutti i ripari tirati su con cemento e mattoni saranno distrutti. Tre importanti ong – Save the Children, World Vision e Terre des Hommes – qualche giorno fa hanno avvertito che sono a rischio almeno 5mila strutture e che decine di migliaia di rifugiati, tra i quali 15mila bambini, rischiano di rimanere senza un tetto. «I nostri team – dice Allison Zelkowitz di Save the Children – incontrano regolarmente bambini ancora sconvolti per la perdita della loro abitazione in Siria. Non dovrebbero vedere la loro casa distrutta di nuovo e rivivere un trauma simile». Piotr Sasin di Terre des Hommes aggiunge che «La demolizione di queste case potrebbe portare alla distruzione anche dei servizi igienici e all’accesso all’acqua potabile, esponendo i bambini all’alto rischio di malattia».

Ma in Libano ben pochi badano al destino di tante migliaia di civili. Demolire le strutture costruite dai profughi significa prevenire situazioni stabili e spinge i siriani a rientrare nel loro Paese. Più della metà della popolazione della Siria, 22 milioni di persone, è sfollata dopo il 2011 a causa della guerra tra il governo e varie organizzazioni islamiste e jihadiste. Circa 5 milioni di siriani sono fuggiti verso i paesi circostanti e la loro presenza è indigesta soprattutto ai libanesi. Con una popolazione di quattro milioni di abitanti, il Paese dei cedri accoglie almeno un milione e mezzo di rifugiati, di cui 2/3 registrati nelle liste delle Nazioni Unite. «Ci rubano il lavoro e godono dei nostri servizi», sono le parole più ripetute dai libanesi. Problemi ingigantiti dalla xenofonia dilagante ma non infondati. Secondo alcuni studi l’arrivo dei siriani – che per sopravvivere si adattano a fare qualsiasi lavoro e accettano retribuzioni molto basse – avrebbe fatto gettato almeno 200mila libanesi nella povertà.

Beirut punta il dito anche contro i paesi occidentali, che si opporrebbero al rientro dei profughi in Siria nonostante l’Isis e altri gruppi jihadisti siano stati sconfitti dall’esercito e siano ormai confinati solo in alcune aree (come la regione di Idlib). Il vicepresidente del parlamento, Elie Ferzli, intervistato dalla televisione al Mayadeen, sostiene in Libano «alcune parti» avrebbero accettato di rallentare il rimpatrio dei rifugiati in cambio di armi e fondi da Usa ed Europa. Il rientro dei profughi vorrebbe dire, ha lasciato intendere Ferzli, il ritorno della “normalità” della Siria e la solidità del potere del presidente Bashar Assad, sostenuto da Russia e Iran. Uno sviluppo che l’Amministrazione Trump e diversi Stati europei – Francia in testa – intendono evitare. E non è un mistero che le pressioni di Washington sulle agenzie dell’Onu e altre organizzazioni internazionali stiano fortemente ostacolando la ricostruzione ad Aleppo Est, dove si è scritta una delle pagine più tragiche della guerra in Siria. Prima delle dichiarazioni di Ferzli, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva ribadito la sua posizione secondo cui i rifugiati siriani dovrebbero tornare in tempi brevi nel loro paese. Invece il primo ministro sunnita Saad Hariri, avversario di Assad e dell’Iran, e i suoi alleati dentro e fuori il Libano sostengono che deve essere prima trovata una soluzione politica, ossia che sia raggiunta una intesa per rimuovere dal potere il presidente siriano. Nasrallah replica che «la vera ragione delle differenze (tra le varie forze politiche) è legata alle presidenziali siriane» e che gli Stati Uniti, insieme a diversi Stati arabi della regione, non vogliono che i rifugiati tornino prima delle elezioni in Siria.

Nell’ultimo anno alcune migliaia di profughi sono rientrati, soprattutto da Giordania e Libano, ma il grosso resta fuori dalla Siria. Molti non hanno più una casa, altri dicono di temere le «misure punitive» del governo. Altri ancora non rientrano per evitare l’arruolamento nelle forze armate.