C’è un mistero che Ludwig van Beethoven si portò nella tomba quando morì a Vienna quel 26 marzo del 1827. Da quando il compositore bonnense aveva ricevuto nel 1817 il primo metronomo dalle mani del suo inventore Johann Mälzel, lo stesso che gli aveva procurato i cornetti acustici per aiutarlo a gestire la sua insopportabile sordità, si era mostrato entusiasta della nuova invenzione che gli permetteva di superare l’ambiguità di espressioni come «allegro», «andante» o «presto». Finalmente avrebbe potuto indicare esattamente con che ritmo voleva che i suoi pezzi fossero suonati. Peccato però che quasi nessun direttore o direttrice d’orchestra suoni i suoi pezzi con le indicazioni date dal compositore tedesco, di cui si sono appena celebrati i 250 anni dalla nascita. E nessuno è mai riuscito a spiegare come mai le indicazioni lasciate sui suoi manoscritti appaiano sistematicamente troppo rapide. C’è stato un filone di musicisti, detti «storicisti», che ha fatto qualche tentativo di suonare le sue opere seguendo pedissequamente le indicazioni del compositore, ma a parte la difficoltà tecnica anche per i più virtuosi, il risultato secondo molti era poco gradevole.

MA LA SETTIMANA SCORSA due ricercatori spagnoli, Almudena Martínez Castro, fisica, laureata en Belle arti e pianista, e suo marito Iñaki Úcar, ingegnere telematico, data scientist e clarinettista, hanno proposto una soluzione a questo mistero. L’articolo, intitolato La scelta del ritmo dei direttori d’orchestra getta luce sul metronomo di Beethoven, è stato pubblicato sulla rivista ad accesso aperto Plos One.
I primi passi di questa originale ricerca i due li hanno mossi dopo aver letto un articolo del 2013 sulla rivista dell’American Mathematical Society intitolato C’è qualcosa che non andava nel metronomo di Beethoven?, dove si ipotizzava mediante un modello matematico che il meccanismo di uno dei primi metronomi di cui disponeva il compositore fosse semplicemente difettoso. In assenza dell’originale (smarrito), i due ricercatori spagnoli si sono dedicati a smontarne vari e elaborare un modello per spiegare il funzionamento di uno simile a quello posseduto dal musicista, secondo il brevetto di Mälzel. In fondo, il metronomo non è che un pendolo che oscilla più o meno rapidamente a seconda di dove si collochi la massa lungo la stanghetta. Niente da fare: nessun difetto fisico o meccanico dava conto dell’anomalia.
Il secondo passo è stato quello di basarsi sull’idea che la verità è una specie di media collettiva, un principio noto come «saggezza delle masse» o vox populi, considerando il ritmo come «un fenomeno percettivo forgiato dal contesto culturale», come scrivono gli scienziati. Che hanno quindi analizzato il ritmo delle nove sinfonie di Beethoven interpretate da 36 direttori d’orchestra tra il 1940 e il 2010, più di 169 ore di musica. Estrarre il ritmo, un’operazione che il nostro orecchio fa in maniera naturale, non è semplice per un computer. Ma dopo aver lavorato a lungo su algoritmi e pulendo dati, i ricercatori spagnoli hanno scoperto che, in media, i direttori d’orchestra suonano sistematicamente circa 13 pulsazioni per minuto più lentamente di quanto indichino i valori sui manoscritti. Che può spiegare questa sistematicità? Rileggendo le note del compositore sullo spartito originale della Nona sinfonia, i due si accorsero che aveva scritto «108 o 120».

OSSERVANDO NUOVAMENTE un metronomo simile a quello usato dal compositore tedesco, si accorsero che la massa a forma di trapezio che si sposta su e giù sulla lancetta, nel centro ha proprio la dimensione 12 punti: quando la parte di sopra, la base maggiore del trapezio, indica 108, quella di sotto indica 120. Il valore corretto è il superiore, ma la forma a freccia rovesciata può indurre a credere che la lettura corretta sia 120. Come ha detto uno degli autori, Úcar, alla rivista Vozpopuli, «Beethoven era un genio, però era anche una persona anziana con una nuova tecnologia». «Quando sappiamo usare qualcosa – aggiunge Castro  – la diamo per scontata, e non immaginiamo quello che pensò la prima persona che dovette imparare a usarla».
Potremmo insomma essere di fronte a un caso di scarsa usability, cioè di una nuova tecnologia non intuitiva da utilizzare, un problema del tutto moderno. Alberto Bosco, docente di pianoforte e storia della musica della Saint Louis University a Madrid crede che «potrebbe essere una spiegazione semplice e interessante, e se potesse essere applicata sistematicamente anche alle altre opere di Beethoven sarebbe utile per sgombrare il campo da tante speculazioni. Resta il fatto – ricorda al manifesto – che stabilire la velocità esatta di un brano è un’utopia. Dipende dal contesto: è un precipitato della relazione fra il pubblico, l’esecutore e il compositore, non può mai essere la stessa. Sarebbe tanto assurdo come vincolare un attore al ritmo con cui il primo Amleto declamò il suo monologo ai tempi di Shakespeare: dipende dove e per chi si declama. Sarebbe interessante scoprire se anche Chopin facesse lo stesso errore perché anche alcuni suoi studi hanno indicazioni che nessun pianista rispetta».