Ma che cosa ci faccio qui a Hannover per una mostra? Me lo chiedo e mi dico che in fondo ci credo ancora, al genio; anzi, che voglio ancora credere al genio. E qui di geni della pittura ce ne sono due, uno di fronte all’altro, uno opposto all’altro, carismatici, coscienti delle loro qualità. Un confronto che non nasce dal nulla, ma ha le sue ragioni storiche, persino i suoi aneddoti. Pablo trifft Max è un titolo ingannevole perché i due artisti non si incontrarono mai. Forse sarebbe stato meglio invertire i nomi: fu piuttosto Max che andò alla ricerca della fama (della pittura, no di certo) di Picasso, tentando di rivaleggiare con lui nella capitale dell’arte di allora, Parigi.

Quando Beckmann si separò da Minne e sposò nel ’25 Matilde, la sua Quappi, la grave depressione che lo aveva colpito dopo la guerra passata al fronte era ormai alle spalle. Rifiorita la sua pittura, consolidata la sua fama in Germania, ottenuta la docenza all’Accademia di Francoforte, era cominciata una nuova fase della sua vita, i «sette anni grassi», come li definì l’amico Stephan Lackner. Picasso era invece già in quegli anni assurto a celebrità internazionale, ben noto in Germania grazie alle mostre organizzate dai galleristi Tannhauser e Flechtheim: la prima addirittura nel ’13, diverse altre negli anni venti. Beckmann coltivò a lungo la volontà di conquistare Parigi seguendo – parole sue – una «stratégie parisienne». Una smania sintetizzata bene in Rêve de Paris. Colette, piccolo ovale di difficile decifrazione che a noi piace vedere come un grammofono dal quale si diffonde una melodia avvolgente. Dopo vari soggiorni, a partire dal ’29 fino al ’33 decise di fermarsi ogni anno a Parigi per alcuni mesi. Ancora prima, nel luglio del ’25, scrisse a Quappi di aver visto una collettiva con dei Bonnard, Matisse, Picasso, e di esserne uscito rinfrancato: «io faccio di meglio». Nel ’31 la grande occasione: un’ampia retrospettiva alla Galérie de la Renaissance, alla presenza di alcune massime autorità. Presentazioni in catalogo di Waldemar- George e Philippe Soupault. Indiscutibile il successo, tanto da meritarsi sul Figaro l’appellativo di «Picasso tedesco». Si dice che la mostra venne apprezzata anche dallo stesso Picasso, che commentò con Vollard: «Il est très fort».

Pablo Picasso, “Il pittore al lavoro”, 1964, Hannover, Sprengel Museum

Tutto qui. La drammatica situazione storica negò qualsiasi possibilità di un incontro tra i due. Beckmann dovette rinunciare a Parigi e a una seconda mostra alla Galérie Bing. Nel ’33 fu dichiarato dal regime nazista artista degenerato e dal ’37, lasciata l’Accademia di Francoforte, si esiliò quasi in clandestinità ad Amsterdam. A guerra finita non rientrò in Germania, ma emigrò negli Stati Uniti dove restò fino all’improvvisa morte avvenuta nel 1950. Picasso non visse la stessa amara sorte, forse perché artista troppo noto per venire perseguitato, ma fu anche lui giudicato artista degenerato e gli fu vietato di esporre. Antifranchista, verso la metà degli anni trenta rientrò in Spagna, dalla quale scappò nel ’37 per far rientro in Francia, vivendo tra Parigi e la costa bordolese. Impressionato dai massacri della guerra civile spagnola, nel 1937 eseguì su commissione Guernica, uno dei suoi capolavori. Fu proprio accanto a Guernica che Beckmann poté vedere il suo grande trittico Der Abfahrt (La partenza), esposti come testimonianze maggiori dell’arte nel periodo di guerra al MoMA di New York. Uno di fronte all’altro: «così vedremo da chi la gente sarà più attratta», scrisse Beckmann a Lackner.

Nel catalogo della bella mostra Beckmann und Paris tenutasi al Kunsthaus di Zurigo e al Saint Louis Art Museum tra ’98 e ’99, a cura di Tobia Bezzola e Cornelia Homburg, quest’ultima si disse convinta, nel suo saggio, dell’influenza di Picasso su Beckmann – ovviamente non viceversa – concludendo che per Beckmann il confronto al MoMA dovette sembrare come «un’adeguata valutazione» dell’arte di entrambi, il riconoscimento infine concessogli di potersi confrontare con Picasso. Ma alla luce di questa mostra allo Spengel Museum di Hannover (a cura di Reinhard Spieler e Alexander Leinemann, fino al 15 giugno), la convinzione della Homburg non ci pare corrispondere al vero. Dalla metà degli anni venti, l’arte di Beckmann si era già ben delineata. Sebbene rimanesse una personalità isolata nel contesto tedesco, la fiducia nel proprio lavoro, che si irradia dallo splendido Autoritratto in smoking del ’27, era all’apice. Inesistente, e non serve dirlo, uno sguardo interessato di Picasso per la pittura del tedesco. La mostra di Zurigo aveva però il merito di porre a confronto Beckmann con tutto il contesto parigino, cioè con la pittura moderna tout court, scegliendo paragoni basati su una cronologia e su tematiche plausibili. Ad esempio, restando a Pablo e Max, nel caso dei ritratti di Olga (1923) e Minna (1924), o dell’Arlecchino al cospetto del Ritratto di Zeritelli, raffronti per affinità o per contrasti stilistici.

Qui a Hannover il confronto appare da subito difficile, dissonante, senza neppure gli adeguati appoggi cronologici. Niente converge, tutto diverge. E lo stesso cartello d’introduzione come le citazioni a muro – datate quelle di Beckmann, non datate (e perché?) quelle di Picasso – lo sottolineano: se l’arte di Picasso mutava per moto perpetuo e al contempo si rinnovava e rinnovava il linguaggio al suo interno, quella di Beckmann faceva di continuo i conti con l’apocalisse che stava vivendo, come lui stesso scrisse nei diari: «In ogni caso restituisco il volto di questi tempi come nessun altro». Appare già come una sentenza il primo dei sei confronti centrali presentati fianco a fianco, Les demoiselles picassiane del 1908 con la Grande scena di morte beckmanniana del 1906, dove i linguaggi non potrebbero essere più dissimili, riportando alla polemica Beckmann-Marc del ’12, nella quale il primo, prendendo le distanze dalle avanguardie, definì il cubismo con tono beffardo «le scacchiere di Picasso».

Nelle sale dello Sprengel il confronto si sviluppa in parallelo, a sinistra l’opera picassiana su uno sfondo viola, a destra quella beckmanniana su uno sfondo rosso scarlatto, entrambe in progressione cronologica, mentre nell’ultima sezione le opere dell’uno e dell’altro si mescolano seguendo un filo tematico. Temi che erano già stati evidenziati a suo tempo dalla Homburg: la continua ricerca di sé stessi attraverso gli autoritratti in posa; la passione per acrobati, clown, circo, varietà, vita mondana; la solida struttura e la sottile simbologia delle nature morte; la creazione, anche in serie, che si rifà ai miti; la polarità uomo-donna; il costante riferimento alle compagne e muse nella raffigurazione delle quali si esprime tutta la sensualità e tutto l’eros sentiti a pari, enorme grado da entrambi: questa la parte più convincente della rassegna.
Il titolo della mostra è molto, troppo ambizioso, perché se non c’è incontro, dev’esserci perlomeno scontro; ma il senso di due visioni contrastanti – vuoi per l’eccessivo brulichio di opere, vuoi a causa di una selezione di esse poco mirata – non emerge in modo significativo, potente. Non ci sfiora neppure l’idea di addentrarci prima nell’uno e poi nell’altro, ma almeno accennare si può a quella loro comune maestria nel padroneggiare lo spazio, nel far deflagrare l’immagine; e a quella diversità che colpisce – bianco e nero – per cui quanto uno appare monolitico, tenebroso, mistero ed enigma («questo spazio infinito che dobbiamo riempire con banalità perché non ci si renda conto della sua terribile profondità»), tanto l’altro lieve come un acrobata, in sembianze sempre mutevoli, la maestria nel cambiare all’infinito, nel mutare il reale a proprio piacimento («Dipingo gli oggetti come li penso, non come li vedo… Perché così? Io ho visto che cosa poteva essere e mi sono chiesto: perché no?»).