Dopo aver raggiunto Berlino per dirigere il nuovo allestimento di Aspettando Godot allo Schiller Theater, nei primi mesi del 1975, Samuel Beckett scrisse all’amico George Reavey confidandogli l’intenzione di apportare cospicue modifiche alla pièce: «Se questo non la purga, niente lo potrà fare». Il risultato delle operazioni di ripulitura si può apprezzare grazie al primo volume della collana «Quaderni di regia e testi riveduti», che assieme agli appunti di lavoro di Beckett – riprodotti anche in copia anastatica – ci offre il testo della tragicommedia Aspettando Godot nella versione di Berlino, secondo l’edizione critica approntata da James Knowlson e Dougald McMillan (a cura di Luca Scarlini, Cue Press, pp. 453, € 55,00).

Prefazione di Knowlson
I lettori di questo libro, solo in apparenza rivolto a un pubblico specializzato, non dovranno lasciarsi scoraggiare dagli svariati segni tipografici che tempestano di parentesi o sottolineature il testo rivisto e corretto per mano di Beckett. La prefazione di Knowlson, congiunta alle note esplicative, costituisce una guida chiara e puntuale per orientarsi nel labirinto delle varianti e identificare fin dall’inizio il duplice obiettivo dei tagli, delle aggiunte e delle revisioni apportate dal drammaturgo. Quando infatti si ritrova allo Schiller Theater, Beckett non lavora soltanto sul copione. Come rivela anche la nuova traduzione di Luca Scarlini, aderente al testo e orientata a ricreare i suoi tanti giochi di parola, da una parte lo scrittore interviene a rimarcare una rete di rimandi tematici, leitmotiv verbali, assonanze o contrasti di frase già presenti nella sceneggiatura originaria, ma dall’altra tiene sotto stretta sorveglianza lo spazio teatrale e si adopera per sfruttare fino in fondo le potenzialità insite nel linguaggio del corpo.

Se in occasione delle precedenti rappresentazioni di Aspettando Godot, a Parigi o a Londra, Beckett si era limitato a presenziare alla tragicommedia in qualità di assistente supervisore, contorcendosi impotente sotto la sua poltrona durante le prove, a Berlino il drammaturgo si accolla per intero gli oneri di regia e sale sul palcoscenico per ammaestrare gli artisti, con attenzione maniacale verso ogni più piccolo dettaglio di scena. Dai colori complementari dei costumi, concepiti in modo da rivelare subito agli spettatori l’interdipendenza simbiotica dei protagonisti Estragon e Vladimir, fino alla gestualità spicciola degli attori, spesso dissonante e ben distinta rispetto al contenuto e alla tempistica delle battute pronunciate, nulla viene lasciato al caso.

Anche se poi, soffermandosi sui disegni riportati nelle note di lavoro, ci si accorge che l’attenzione del regista va ad appuntarsi sulle posizioni riservate ai personaggi in rapporto agli elementi della scarna scenografia (una pietra per il terrestre Estragon, un albero per l’aereo Vladimir) e soprattutto sulle dinamiche dei loro reciproci spostamenti in scena.

Tanto Estragon e Vladimir quanto i loro comprimari Lucky e Pozzo sono chiamati a tracciare sulla superficie del palco una serie di andirivieni a forma di rettilineo, triangolo, cerchio o semicerchio, che dovranno poi essere percorsi e ripercorsi durante la pièce variando le traiettorie o il senso di marcia, con un effetto «a elastico». La tragicommedia, in questo modo, viene disseminata di simmetrie e contrasti non solo verbali ma anche visivi, capaci di scatenare davanti al pubblico un fitto contrappunto di richiami da un atto all’altro. Ogni mossa degli interlocutori risulta scrupolosamente progettata per riorganizzare il caos, le incertezze e i nonsense dei loro dialoghi: come se tutti gli sforzi di regia puntassero a costruire una gabbia teatrale di parole, gesti e movimenti, in cui gli attori si ritrovano imprigionati, martirizzati e costretti ad eseguire in sequenza un grottesco e stilizzato viavai di riavvicinamenti.

«È impossibile dirigerli in maniera naturalistica. Deve esser fatto in maniera artificiale, come un balletto», dichiarò Beckett all’assistente di produzione Walter Asmus: «è un gioco alla sopravvivenza». Più che a un direttore di scena, il Beckett dello Schiller Theater assomiglia allora a un coreografo dell’assurdo, impegnato ad assemblare un congegno ad orologeria di alta precisione. Il lettore degli appunti di lavoro può infatti percepire la pressione minacciosa del silenzio, ridistribuito per l’occasione da Beckett in una serie di dodici quadri statici o «momenti d’attesa», che in questo più che in altri allestimenti della pièce incombono sullo spazio scenico a intervalli cadenzati e rischiano di inghiottire da un istante all’altro i partecipanti.

Come un naufragio
Chi assiste a questa peculiare rappresentazione di Aspettando Godot sembra ritrovarsi alle prese con un ordigno sempre sul punto di implodere. E non è un caso se Beckett, stando a quanto afferma Knowlson, avrebbe suggerito agli attori berlinesi di recitare immaginando di trovarsi su una barca con una falla impossibile da tappare. La danza dei corpi in scena, disegnata sui leitmotiv delle battute, si rivela la sola arma di combattimento a nostra disposizione. Come accade nella maggior parte delle opere teatrali e dei romanzi di Beckett, anche in Aspettando Godot il linguaggio di qualsiasi specie, con il suo specifico ritmo e le sue angosciose carenze, resta l’unico strumento di lotta che ci permetta di reagire al nulla, di tenerlo a bada e di contrastare le invisibili insidie di un universo votato all’autodistruzione. Quantomeno, per tutta la durata dello spettacolo.