Quello di Omero è il nome più citato nelle recensioni Usa dell’ultimo film di Ari Aster, Beau ha paura (da ieri nelle sale italiane). All’epica greca, alcuni aggiungono anche Edipo, Freud e Charlie Kaufman. E poi ci sono i nomi dei registi dei film presentati nelle carte blanche che Aster ha curato per il Lincoln Center, ai fini di «complementare» l’uscita del suo nuovo lavoro – Hitchcock, Tsai Ming-liang, Albert Brooks, Jacques Tati, Guy Maddin, Michael Powell e Emeric Pressburger. Se tutta questa pompa non bastasse a dare l’impressione che Beau ha paura sia l’evento cinematografico della primavera, ci sono anche le interviste, in cui l’autore di Midsommer- Il villaggio dei dannati e Hereditary – Le radici del male tortura i giornalisti (masochisticamente adoranti), rifiutandosi di «spiegare» il film -si tratta, dice, di una «sala degli specchi», di una «cassa di risonanze». Perché il suo process è puramente «intuitivo», quindi impenetrabile al pensiero lineare dei comuni spettatori.Da un girone infernale all’altro nel tentativo di arrivare al funerale della madre

PURTROPPO, nemmeno la devastante empatia di un grande attore come Joaquin Phoenix riesce a rendere tollerabili le tre ore di quest’Odissea di un uomo tragicamente indeciso che passa da un girone infernale all’altro nel vano tentativo di arrivare al funerale di sua madre.
Già stropicciato e ammaccato a puntino nella prima sequenza, nello studio del suo psicologo, Beau si lascia docilmente mandare a casa con una nuova scorta di farmaci che dovrebbero aiutarlo a superare il viaggio dalla mamma, previsto per il giorno successivo. Scopriamo presto che il nostro eroe abita in un appartamento assediato da ogni sorta di iperaggressiva feccia, umana e non – un accoltellatore nudo, un ragno velenoso, un tipo coperto di tatuaggi che lo assalta mentre cerca di entrare, un misterioso vicino che lascia messaggi minatori lamentandosi del volume troppo alto di una musica che non c’è. Dopo una notte insonne, Beau è già fuori dalla porta per andare all’aeroporto quando si accorge di aver dimenticato…….il filo interdentale (uno dei mille, fastidiosi, dettagli ammiccanti di nonsisacosa che saltano fuori come i pop up pubblicitari sul computer).

NEL BATTIBALENO che gli ci vuole per recuperalo dal bagno, le chiavi nella toppa e la valigia sono scomparsi. Dall’altra parte del telefono, la voce della mamma è piena di delusione alla notizia dell’inevitabile ritardo. Alla seconda chiamata di Beau, non è più lei che risponde, ma un fattorino di Ups che dice di trovarsi di fronte al cadavere di una donna decapitata da un lampadario. A rendere estenuante il film (e qui non siamo nemmeno alla prima ora) non è tanto il frenetico affollamento di eventi che ostacoleranno viaggio di Beau – tra cui una coppia che lo addotta dopo che è stato investito da una macchina e una specie di setta che ha allestito nel bosco uno spettacolo teatrale da cui nasce la sequenza visivamente più bella del film, animata dai Cileni Cristobal Leon e Joaquin Cocina – quanto il totale disinteresse umano di Aster per i personaggi, incluso il suo protagonista, e per qualsiasi implicazione emotiva o intellettuale di quello che ci scorre davanti agli occhi.
Dietro alla mancanza di logica di Beau ha paura non si nasconde infatti nessun mistero. Non c’è lo straziante esistenzialismo kafkiano dei film di Charlie Kaufman, né il surrealismo dolorosamente malinconico di quelli di Albert Brooks. Solo un irritante vuoto pneumatico.