Nell’ottobre 1969, in Italia, esce il vinile Abbey Road, il penultimo e dodicesimo dei 13 lp ufficiali dei Beatles: da circa un decennio è un album celebratissimo, non tanto per la musica, quanto piuttosto grazie alla copertina o meglio a come quell’immagine riesca a influenzare oggi diverse azioni ludico-esibizioniste, tra selfie e dintorni. Quel disco torna in questi giorni nei negozi, remixato per la prima volta. Nell’edizione super deluxe ci sono 40 tracce disponibili su 3 cd e un Blu-Ray, in streaming o su 3 vinili 180 g. C’è anche un’edizione deluxe su due cd su singoli cd e lp.
Il nuovo mix è disponibile nelle versioni stereo, stereo in alta risoluzione, 5.1 surround e, per la prima volta per i Beatles, Dolby Atmos. Giles Martin, figlio del produttore George Martin, e Sam Okell, fonico di Abbey Road, hanno lavorato sui nastri a 8 piste originali puntando a un nuovo equilibrio fra gli strumenti nello spazio sonoro.
E allora rieccole le mitiche strisce di Abbey Road , tra i soggetti più diffuse sui social, al numero 3 della via, zona St John’s Wood, non lontano dal museo delle cere Madame Tussaud, dove peraltro si ritrovano anche le «statue» di John, Paul, George e Ringo; con greggi di fan che ancora oggi fanno la fila in onore dei quattro inducendo le auto a rallentare e attendere i mille attraversamenti. Quelle strisce mezzo secolo fa, esattamente l’8 agosto, vedono, sfilare i Fab Four per una delle copertine più gradite e familiari al mondo rock, fino a diventare icona pop dell’immaginario collettivo moderno, destinato a perdurare grazie ai continui remake anonimi, come il folklore contadino da cui inizia buona parte della popular music contemporanea.
LONDRA
Tuttavia se il blues – che genera il rock e quindi i Beatles – nasce in campagna, è pur vero che la propria affermazione, prima nazionale poi universalistica, avviene nelle città del Sud e in seguito del Nord degli Stati Uniti, fino a caratterizzarsi, come tutta la popular music del XX secolo, quale sonorità urbana. Anche in Inghilterra il rock si afferma in medi e grandi agglomerati, da Liverpool a Manchester, da Birmingham a Londra. E proprio London Town, oltre a divenire capitale del rock per antonomasia, proprio durante i cosiddetti «Anni Beatles» (1962-1970), è il set naturale dell’iconografia giovanile, a sua volta, assieme ai dischi e agli happening, il veicolo principale di rapida diffusione di nuove subculture, dai mod ai rocker, dalla psichedelica all’underground, dagli hippie ai glam.
La Londra dei Beatles resta però nascosta, rispetto agli scenari ostentati appunto dai movimenti generazionali, che occupano e rivoluzionano Oxford Street e Carnaby Street a suon di negozietti flower power; lo faranno anche i Beatles, brevissimamente (il tempo di un colossale fallimento economico) con la boutique Apple posta al 94 di Baker Street e lanciata anche grazie al lavoro visivo dei designer olandesi Fool.
Il rapporto Beatles/Londra resta perciò «confinato» tra le mura domestiche, alle feste private, nelle gallerie d’arte (dove John Lennon conoscerà Yoko Ono), negli studi televisivi, nei grandi teatri e ovviamente nelle sale di registrazione; e proprio una di queste, vicino alle strisce zebrate di Abbey Road, è la protagonista di un intero sfortunato lungometraggio, Let It Be, che vanta una quantità enorme di girato tuttora non visto (e a lungo ritenuto perso, ora in mano a un collezionista olandese): ma lo stesso film risulta inedito in dvd a causa dei problemi legati al modo di rappresentare i quattro di Liverpool ormai alla frutta, mentre provano le canzoni e animatamente discutono fra loro. La pellicola – e di essa c’è in rete una discreta testimonianza – si conclude con le riprese sui tetti per l’ultimo concerto beatlesiano (in teoria il primo di una lunga serie abortita fin da subito), all’improvviso interrotto dai vigili per una mancata autorizzazione a suonare dal vivo (banale distrazione organizzativa), tra lo scorno del pubblico in zona, sorpreso ed estemporaneo, forse inconsapevole di presenziare agli ultimi fuochi di un’esperienza già all’epoca ritenuta unica e fondamentale.
LEGGENDA
Unica e fondamentale sarà anche la copertina di Abbey Road, in apparenza banale o risaputa, invece costruita per fare esprimere le più svariate opinioni tra i sempre numerosissimi fan in adorazione. La più nota teoria in merito al soggetto rappresentato è quello riguardante il Paul McCartney scalzo, intesa quale prova della sua morte (mascherata dall’impiego di un sosia). Ma tale leggenda metropolitana accresce solo la morbosità di un pubblico che il filosofo Teodor W. Adorno taccerebbe di comportamento irrazionale reazionario, succubo dell’industria culturale (di cui la pop music segnerebbe riduttivamente il livello infimo, secondo lo studioso tedesco, innamorato di dodecafonia).
Immagini a parte, che talvolta creano, attorno ai dischi, persino grossi equivoci sui valori musicali, Abbey Road resta una grande fatica beatlesiana, in cui la seconda facciata può annoverarsi tra i capolavori assoluti del quartetto assieme ai 33 giri Revolver e Sergeant Pepper, l’ep Magical Mistery Tour, il lato A di A Hard Day’s Night, moltissimi singoli e in parte il White Album, accostabile proprio ad Abbey Road (e al postumo Let It Be) per l’idea complessiva di disordine preparato, di frantumazione della logica di gruppo a favore delle esigenze di quattro singoli individui. Dal White Album a Let It Be, insomma, ciascun beatle prova a evitare di lavorare per un’identità o un brand chiamato The Beatles, preferendo mettere in evidenza solo le proprie qualità compositive, strumentistiche, vocali.
SUITE
Tutto ciò, a maggior ragione, si ritorce sulla prima facciata di Abbey Road dove fluiscono sei canzoni con gli stili più eterogenei dal vaudeville al proto metal, dalle tenere ballad di George Harrison come Here Comes the Sun e in particolare Something (subito «coverizzata» sia da Elvis Presley sia da Frank Sinatra), ai blues lennoniani ancora psichedelizzanti tra Come Together e I Want You, dalla parodistica con tocco mélo Oh Darling ai riusciti divertissement dal gusto un po’ rétro di Octopus Garden e Maxwell Silver Hammer (dove s’avverte la passione di Ringo Starr e McCartney per il circo e il dixieland).
È però la suite sul lato opposto a risultare un unicum nella storia del rock. Facendo di necessità virtù e forse non avendo tempo e voglia di sviluppare diversi abbozzi melodici, Lennon e McCartney («esclusi» Starr e Harrison) compongono una singolare opera tra la suite, il collage, il patchwork, dove brevi frammenti di song vengono concatenati uno dietro l’altro, con un risultato sonoro mozzafiato, da impresa epica, con respiro quasi sinfonico nel combinare, a sua volta, la parola cantata ai riff, gli stacchi, ai ritmi, ai solo, con un dinamismo mai più ripetuto né dai futuri ex Beatles né, a memoria, da nessun’altra rock band, a eccezione di Frank Zappa con o senza Mothers of Invention, le cui suite hanno però una funzione straniante, lontana dall’inclusività melodica beatlesiana.
Lo spiega bene Fernando Fasce, docente di storia contemporanea all’Università di Genova, esperto di presidenti americani e di mass media, che ai Fab Four dedica, quest’anno, La musica nel tempo. Una storia dei Beatles, uno dei migliori testi in assoluto sull’argomento specifico: «Sulla facciata B invece Macca e George Martin (il produttore, manager, pianista e deus ex machina) elaborano un elegante medley di pezzi-lampo nei quali in una decina di minuti il bassista racconta la crisi del gruppo, passando dal difficile rapporto con Klein (You Never Give Me Your Money) a una riflessione corale intorno al peso psicologico, per lui, la band e i fan, di un eventuale scioglimento (Carry that Weight), al brano d’addio, un congedo in bellezza immaginato come una serie di brevi assoli rock, ognuno di loro per un ultimo omaggio al pubblico (The End)». E proprio The End (La fine) è l’ultima canzone dell’ultimo 33 giri dei Beatles, nell’ultimo giorno (18 agosto) in cui si trovano ancora tutti assieme (in realtà la gestazione del brano inizia il 25 luglio e prosegue per 4 giorni). E certe parole del brano paiono quasi un solenne epitaffio: «(…) e alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai»…